La tana

Della paura come identità ultima dell’umano, del suo superamento

I. L’ATTO CREATORE DELLA PAURA

Alone, with too much generosity
A theatre mask of hostility attracts
Assaults occur, infrequently
And those who come, to conquer?
(Colin Newman – Alone)

Devastato il giardino, profanati i calici e gli altari, la condizione umana a seguito del gotterdammerung, il crepuscolo degli dei, non ha saputo creare che il deserto, garantendosi l’invivibilità della propria condizione piuttosto che il balzo in avanti proprio di ogni ente naturale.
In altre parole, la perdita della speranza in una qualsiasi alterità e il conseguente crollo della metafisica non ha dato seguito all’alba della consapevolezza di classe materialista né all’aristocrazia degli Oltreuomini, ma ha creato un processo di assottigliamento di qualsiasi benché minima idea, rendendo l’uomo in costante compartecipazione ontologica con la propria alienazione.
Ecco il bloom, il transumano, insensibile a null’altro che sia l’idea di sé, completamente trasfigurato nelle azioni che compie (e nel valore che ne ricava) e con sogni a basso costo.
Questa condizione esigeva ed esige la nascita di una nuova forma di piacere, un godere proprio del Tempo che domina, un processo desiderante che non generasse desiderio, e così nasce la paura come atto creatore.
Da sempre questo sentimento nato come normale istinto di autoconservazione è stato utilizzato per guidare gli istinti delle masse, dalle prime mitopoiesi escatologiche al terribile occhio di Dio, tutto ciò per giustificare sempre sfruttamento e massacri, eppure mai come oggi la paura assume i connotati di eruzione (nel senso di erupto, eruttare spinta vitale), divenendo la libido di poter ritrovare quel sogno che l’uomo ha perso tanto tempo fa: l’identità.
Immaginiamo un ente secolarmente educato ad obbedire alla trinità Dio-Patria-Famiglia, o meglio a temere il primo, soddisfare la seconda e sentirsi protetto dalla terza in una vita di continua schiavitù consapevole; immaginiamo poi che la Storia (e il suo processo di scrittura e decodificazione) dimostri che queste tre entità non sono altro che fantasmi, e che l’uomo si ritrovi nel corso di due secoli completamente sradicato da qualsiasi appartenenza.
La prima reazione di quest’orfano è stata quella di produrre e consumare con bulimica ferocia, e per più di cinquant’anni la società occidentale ha assunto l’aspetto del parassita, finché non è rimasta più carne sul cadavere del presente e a quel punto, orfano una volta di più anche della società che gli aveva promesso il benessere, sia diventato finalmente nomade, non più padrone del tempo e con la possibilità di imporre la propria volontà solo sul proprio divenire.
Immaginiamo che non abbia neanche scorto questa possibilità e si sia trovato sperduto nel deserto, con un passato che è solo menzogna e presente e futuro che son la ripetizione di giorni uguali, con la morte e la miseria come unica variabile.
L’uomo è una macchina desiderante, e a questo punto si poteva scegliere di “stringersi l’un l’altro con più forza e amore (…) comprendendo di essere rimasti soli l’uno per l’altro” oppure di desiderare la creazione di identità virtuali, un atto di necrofilia della volontà: necrofili, scelsero la seconda, e decisero che l’ente di produzione di identità fosse proprio quel sentimento a un tempo naturale e servile che è la paura.

II. LA PORNOGRAFIA DELLA PAURA

You love me because you’re frightened
I can easily believe my eyes
Your fear is my finest hour
My fear is your disguise
(Magazine – Because you’re frightened)

Oltre la fine del piacere vi è solo la pornografia, il piacere del piacere, e ad oggi la paura è il sentimento morboso che riesce ad eccitare il noumeno del Bloom.
La crisi, il terrorismo, la povertà, l’immigrazione, la disoccupazione e poi la morte: l’uomo gode nell’averne paura, perché si sente parte di qualcosa, ritrova un Dio una patria e una famiglia semplicemente applicando una dialettica negativa nei confronti di situazioni.
È esplicativa di ciò tutta l’opera di Kafka, e in particolare un ritratto di questa, per dirla con Blanchot, “sovranità del neutro”, il racconto “Davanti alla legge”.
In esso un contadino si trova di fronte alla porta che lo separa dalla Legge sorvegliata da un guardiano che gli dice “Per ora non puoi entrare e, comunque, davanti a me troveresti altre porte e altri guardiani”.
Passano gli anni, il contadino cerca di convincere ripetutamente e inutilmente il guardiano a farlo passare, finché stremato dalla vecchiaia non si trova in procinto di morire; il guardiano allora gli confessa che quella porta era destinata solo a lui, e ora che è moribondo va a chiuderla.
“Dove si credeva vi fossero leggi c’era desiderio, e desiderio soltanto” è scritto in “Kafka per una letteratura minore” ed effettivamente il contadino non scorge una linea di fuga, un superamento della sua condizione attuale (l’attesa) ma semplicemente il divieto, creandosi così l’identità dell’uomo che attende.
Così la paura, tanto comoda alle strutture di potere in quanto stasi dell’individuo, tanto comoda per quest’ultimo in quanto ultima possibilità di piacere.
Pensiamo agli ultimi massacri di Daesh: si annusavano sotto i pantaloni e le gonne del Bloom quelle sensazioni bagnate dei coiti notturni.
A Parigi un commando entrava in un noto locale per giovani e apriva il fuoco, a Bruxelles morivano bruciate ingenti quantità di persone (la morte come processo industriale, lezioni ben imparate dalle guerre occidentali) in aeroporto e in metro, a Nizza un camion falciava simpatici turisti vogliosi di prendere il sole e festeggiare la repubblica francese…
Tutta l’umanità, ergo il mondo capitalista, si stringe in un tremante abbraccio: finalmente qualcuno da odiare, finalmente potersi dire occidentali, finalmente la paura, finalmente noi.
La paura nella società dello spettacolo è il collante per anime altrimenti sradicate, ed è al contempo l’unica spinta vitale dell’umanità.

III. LA DIALETTICA DELLA PAURA

I love tube disasters
I wanna marry a tube disaster
I want another one like the last one
cause I live for tube disasters yeah
(Flux Of Pink Indians – Tube Disasters)

La paura come paradigma.
La paura disciplina e regge lo stato di cose presenti, poiché un individuo senza le speranze di benessere di ieri e senza il terrore dell’oggi è una grande possibilità insurrezionale: quando hai paura di perdere il poco che ti è rimasto, che poi sono gli spiccioli per bere e drogarti e un/una partner con cui condividere la tua solitudine, non potrai neanche immaginare un superamento.
Disarticolare ogni paura è il primo compito per contrastarla: la morte violenta c’è sempre stata, non sono i fascisti dello Stato islamico ad averla creata, il lavoro salariato è un’invenzione dei padroni, perderlo vorrebbe dire tornare allo stadio primigenio dell’esistenza, con tutta la sua moltitudine di possibilità evolutive, e così anche per la mancanza di ricchezze e proprietà.
Ogni terrore è intuizione dialettica, sono tutte parole, niente è vero. Se così è, non si può temere più nulla, perché tutto è lecito.

La paura come linguaggio.
Uomini e donne sono sottoposti/e a un bombardamento di paure costante, così da non scordarsi mai di essere soggettività paurose (quindi identità fisse).
Telegiornali, siti web, giornali, tutto concorre a sviluppare un linguaggio della paura: troppe bombe in giro per così pochi morti.
A costo di assumere posizioni Necaeviste -per non dire Machiavelliche- la guerra sociale ha bisogno di sfruttare il linguaggio della paura facendosene carico.
I militanti jihadisti, pur nella loro delirante visione del mondo, hanno indovinato la strategia: divenendo volutamente oggetto della paura, attirando su di loro le paure di tutti/e con azioni gratuitamente sanguinarie, sono diventati oggetto di desiderio da parte di coloro che la paura non volevano più subirla.
Dimostrando una grande intelligenza tattica, ISIS si spinge oltre all’organizzare la jihad contro il mondo occidentale. Tutto ciò che attacca quel mondo producendo paura da una parte e desiderio di elargirla da un’altra, è automaticamente ISIS. Non importano le intenzioni, le relazioni e le storie di chi agisce, in un conflitto la posta in gioco non è la coerenza ma l’offensività: la messa in serie di atti che facciano progredire il conflitto stesso. L’accumulo di potenza e lo sviluppo di rapporti di forza favorevoli: il mezzo.
Ciò non significa che la militanza rivoluzionaria debba utilizzare gli stessi metodi -tanto più constatando quanto i rapporti di forza ci vedano minoritari- né che debba tornare a utilizzare una metodologia definita “terrorista”.
Che peraltro non fa più paura a nessuno.
Prova ne è l’ultimo teorema datato 6 settembre della magistratura italiana contro gli/le anarchiche/i che, malgrado il polverone montato dagli scribacchini, non ha innescato il benché minimo processo timoroso-desiderante nei confronti dei cittadini.
Piuttosto utilizzare questo linguaggio contro ciò che si vuole intimorire.
Una sommossa, un riot, distrugge anche se per poche ore il quotidiano delle masse, dando l’assalto al loro spazio-la città devastata.
Come si è potuto non capire che il polverone mediatico all’indomani di ogni grande scontro di piazza era la prova che le azioni di quella giornata avevano lasciato un segno interiore nel pubblico molto più grosso delle due vetrine spaccate?
Come non capire che ci si era confrontati con lo spettacolo finalmente sullo stesso piano e non più in posizione difensiva?
Incutere paura al quotidiano, oltre la distruzione dello spazio, vuol dire frenare i meccanismi di produzione, ergo stoppare il tempo.
Il piccolo sabotaggio nei pressi della stazione di Bologna del 23 dicembre 2014 rallentò per ore il transito di passeggeri, blocco il traffico di merci umane, incutendo molto più terrore di qualsiasi grido barricadero. Il terrore del cittadino di non potere, anche per quel giorno, trascinare avanti normalmente la propria miserabile esistenza aggrappata agli scampoli di un benessere in rapido esaurimento.
Allo stesso modo ogni blocco dei camion operato dalle/dai compagni/e ai magazzini della logistica suscitano il terrore –un terrore omicida– nei padroni e nei loro affiliati: è un incubo che qualcuno alzi la testa rallentando sia il processo di ristrutturazione dei cosiddetti “diritti dei lavoratori” che la distribuzione delle merci in un paese quasi completamente post-industriale.
Il modo migliore per un rivoluzionario per incutere paura oggi è ridefinire spazio e tempo, che sia quindi lo spazio che creiamo (anche distruggendo) e il tempo che viviamo.

IV. OLTRE LA PAURA, VERSO IL DESIDERIO.

So if you ever think that life is just not worth living
If you doubt that you have anything left at all, worthy of truly giving
When life’s not making any sense and you’re filled with anger and resent
Remember love can conquer all, it is the start of state hates final fall
(Conflict – A Message To Who)

La macchina desiderante “uomo” non ha smesso di desiderare con la merce, lo ha semplicemente diretto nella ricerca dell’identità sradicata dallo spettacolo: sentirsi parte di qualcosa, di una nazione, di un genere, di una famiglia.
La paura è l’unico mezzo rimasto per raggiungere ciò, essendo venute a mancare tutte quelle condizioni filosofiche e sociali che avevano eretto le sovrastrutture autoritarie: avendo appurato che l’inconoscibile era irraggiungibile, ci si è messi a temerlo.
Una vita differente, culture lontane, soggettività indisciplinate, tutto è una minaccia.
La crisi del capitalismo finanziario poteva essere una eccezionale occasione per smarcarsi dal giogo del lavoro salariato e dal “migliore dei mondi possibili”, invece grazie a un’intelligente propaganda politica e massmediatica si è infuso terrore di morte e miseria nel cittadino che si è attaccato con le unghie e con i denti all’idea di “lavoro” (dove?) e “futuro”(quale?).
Questo terrore, lo ripetiamo ancora una volta, è una voglia. Sarebbe quantomeno ingenuo credere che la stragrande maggioranza di individualità occidentali siano a tal punto ottenebrate dalla propaganda massmediatica da credere sul serio a fantasmi ormai quasi trasparenti, il punto di base è che la paura tiene in costante veglia la personalità, fa sì che non si ponga domande, soddisfa quella pulsione repressa di generare desideri.
Alla crisi del piacere, che non trova più spazi se non nel piacere della paura, la risposta è un nuovo investimento libidinale nella creazione di relazioni non mercificate.
Se l’immaginario degli ultimi anni è completamente fondato sulla paura, bisogna opporre ad esso un nuovo immaginario fatto di corpi intrecciati, in continuo divenire, che soddisfano ogni necessità qui ed ora, senza deleghe né mezzi che non sia la volontà.
Anche qui la comune ritorna, il tentativo di tornare ad appagarsi di desiderio con la prospettiva di allacciare relazioni di condivisione sempre più ampie.
L’amplesso è più soddisfacente se inscritto in una prospettiva rivoluzionaria.
La paura è la pornografia che il capitale ci vende al modico prezzo della morte della voglia, l’insurrezione è la ricostruzione di un piacere senza limiti né freni.

 

Estasi & Calore

Traduzione del pezzo di Automnia: “Ecstasy & Warmth“, pubblicato su The Occupied Times.

Nelle ultime settimane mi sono immerso nell’idea del fugitive planning. Nel loro libro “The Undercommons“, Fred Moten e Stefano Harney parlano di “una piattaforma comune, un energico set di posizioni… una notazione, uno studio e un punteggio fattosi tangibile” che sono “praticate su e oltre l’orlo della politica, nel suo sottosuolo.” La veloce melodia di queste parole mi ha tormentato dall’ultima tornata elettorale, e questo, senza dubbio, perché fa rima in maniera così stretta con quello che ho visto attorno a me. Gli eventi di maggio sembrano aver rilasciato una sommessa onda di conversazioni, un nuovo, delicatamente montante movimento di discussioni sul fare piani, e pianificare la fuga dall’insopportabile futuro che il nuovo governo sembra promettere.

Ma questo è anche un pianificare come scusa escapista per sfuggire al più che insopportabile presente. Ci chiamiamo a raccolta in modo da poter sedere nella calorosa oscurità che si raduna nel retro dei pub, e in modo di stare insieme alle persone che ci fanno sentire meno sole, meno spaventate, meno indifese. Tuttavia non importa quanto calore proviamo, sentiamo sempre il bisogno di negarlo. No, diciamo, non siamo venuti per stare insieme, ma per produrre; indichiamo fieri la nostra agenda adempiuta, evidenziamo le nostre azioni, ci crogioliamo nel senso di realizzazione che proviene dal prefiggersi nuove cose da realizzare.

Questa negazione è un sintomo dei corpi avvelenati con cui facciamo politica; corpi avvelenati dal lavorismo e dalla mascolinità eteronormativa che ci fa rivoltare contro la cura, non importa quanto secretamente bramiamo il suo abbraccio.
Marx disse che “la tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi”, ma è più un avvelenamento che un brutto sogno. I ritmi, modi e movimenti di lavoro e patriarcato non possono essere abbattuti da qualche momentaneo risveglio; sono così potenti in virtù della loro penetrante pervasività. Come tossine si nascondono in noi, e da noi filtrano nei nostri spazi. È questo veleno che rode il nostro organizzarci dall’interno, ma che lo attacca anche dall’esterno. Quando Owen Jones sputa bile su “assemblee antagoniste usate come terapia di gruppo” è questo avvelenamento che lo muove. La triste realta è che lui è così abituato alle tossine del lavoro e del machismo che l’idea di un antidoto contro di esse lo nausea.

Non ho molto da dire sulla prassi, quello lo lascerò ad altre persone molto più incisive e perspicaci di me. Invece sono interessato nelle strategie e tattiche già diffuse nella riproduzione della vita antagonista. Per vita antagonista intendo il vivere di tutte quelle persone per cui la sopravvivenza quotidiana è sinonimo di lotta. Eccomi qua, come penso siamo tutt*, per sempre indebitat* con Silvia Federici, i cui lavori così acutamente identificano “la distruzione dei nostri mezzi di sussistenza [riproduzione]” come fondamentale per l’oppressione che proviamo. Gli agenti di questa distruzione prendono una moltitudine di forme; possono essere il razzista sul nostro autobus, il sessista nella nostra strada, il transfobico nella nostra toilette, il padrone di casa alla nostra porta. Sono la brutalità poliziesca quanto il basso salario, la cattiva salute come la cattiva volontà.

L’unico vero modo per sopravvivere a queste cose è pianificare, ed è quello che la maggioranza di noi fa. Usciamo con amici che sappiamo ci copriranno le spalle, che risponderanno ai colpi, che non accetteranno questo o quello, e dopo andiamo a casa e prendiamo le pillole che qualche compagn* ha lasciato lì. Ci stringiamo vicini ai nostri amici per passare tra le barriere, lasciamo i/le bambin* con i nostri genitori e facciamo la lavatrice dai vicini. Noi pianifichiamo, noi ci organizziamo, e facciamo questo tutti i giorni, senza mai fermarci abbastanza per chiamarla politica. Abbiamo le nostre pratiche, il nostro pensare, la nostra “piattaforma comune, un energico set di posizioni… una notazione, uno studio e un punteggio fattosi tangibile”. Il fugitive planning è già un fatto della nostra vita.

Quello che mi interessa di più è la riproduzione di questa pianificazione, che è anche, beninteso, la riproduzione della vita antagonista da cui viene generata. Sembra che sopravvivere sia spesso cercare qualcosa per cui valga la pena sopravvivere, e se questo è vero per come sopravviviamo, dovrebbe anche essere vero per come ci organizziamo. Così arriviamo ai due affetti che sento essenziali alla riproduzione delle nostre vite: l’estasi e il calore.

Estatico è il momento d’intensità trascendentale; lo provi nei club ed ai concerti quando sei pers* nella folla e nella musica. È la sensazione che provi quando non sei sicur* di dove sei, ma la ragione per cui esci è tornare là. Sono quei momenti di estasi che ci aiutano a resistere al lacerante tedio della sopravvivenza; sono così preziosi per noi perché ci offrono un po’ di sfogo, un po’ di evasione, per quanto fugace. Questo è, suppongo, l’essenza di vivere per il weekend. “La febbre del sabato sera” è un film sull’estatico. Possiamo pensare a un migliore avatar di questo affetto di Tony Manero? Del futuro “chi se ne fotte” dice al suo padrone, “il futuro è stasera, mi devo preparare!”.

Anche il calcio è un gioco che riguarda la produzione di estasi. È un teatro che scrive se stesso, e che, quando dà il suo meglio, produce sempre momenti di pura eccitazione . Si è parlato molto ultimamente del Clapton FC; un club di calcio dove un gruppo di fans chiamato “Clapton Ultras” ha guadagnato una reputazione per la folla inclusiva e radicale che creano sulle gradinate. Molte persone si sono concentrate sui cori che la folla canta o sulle bandiere che sventola, ma tutto questo manca il punto – la cosa più importante è la folla stessa.
Infatti, per essere più specifici, quello che veramente importa è cosa la folla stia consciamente producendo – il potenziale per l’estasi. Non dimenticherò mai il momento in cui James Briggs segnò un gol impossibile nella finale di coppa contro il Barking. La sensazione è stata indescrivibile, ma estasi è la parola che arriva più vicina a rendergli giustizia; una gioia moltiplicata mille volte dalla comunizzazione di essa tra la folla. Quello che rende il Clapton speciale è la possibilità di provare questa gioia da parte di chi è solitamente esclus* da altri campi di calcio, che sia per il bigottismo della folla dentro di essi o per il costo dei biglietti richiesti per entrare nello stadio e di conseguenza provare quell’esperienza. Il mio punto è questo; che il gusto dell’estatico non può essere esclusivamente per uomini bianchi eterosessuali abbastanza ricchi da poter permettersi di comprare gli abbonamenti dei club della Premier League.

Non possiamo, tuttavia, sopravvivere di sola eccitazione. L’estatico è potente solo quando è circondato da un altro, cruciale, affetto: il calore. È difficile trovare un altra parola per ciò che intendo con calore, perché è veramente un composito di molte sensazioni: sicurezza, vicinanza, comfort, agio, riposo. Suppongo che il calore sia venire rilasciat* da un fermo e trovare i propri amici e amiche che ti aspettano, ma è anche guardare un film tranquill* in compagnia. Il calore è ciò che rende la nostra lotta sopportabile, ammorbidisce i bordi della nostra rabbia e del nostro dolore e ci ferma dall’autolesionismo. Tu parli a amiche e amici dei tuoi incubi sui poliziotti e loro ti ascoltano, ti dicono che li hanno anche loro. Non fa scomparire gli incubi, non lo fa mai, ma indebolisce l’ombra che gettano sulla tua giornata.

Come ho detto all’inizio, il potenziale per il calore risiede nei molti incontri che già abbiamo. Quello che serve è smettere di combattere la sua esistenza. Invece dovremmo accettare l’inerente calore della vera collettività; chiederci l’un l’altra delle nostre vite, offrirci aiuto dove possiamo, spingere i contorni della nostra lotta oltre gli stretti confini del “politico”. Non dovremmo aver paura di trattenerci quando l’ordine del giorno è finito, nemmeno di provare piacere nel semplice fatto di essere lì, tra compagn*, tra amici/che.

Forse possiamo immaginare il comunismo come la delucidazione di questo calore ed estasi, come il loro emergere dall’eccezione dentro al quotidiano. La comunizzazione ci appare di conseguenza come il tentativo consapevole di creare spazi e collettività favorevoli alla produzione di questi affetti. Il nostro fugitive planning coinvolge già il far serata al club o andare allo stadio, ma quello che vorrei è che la gente riconosca queste attività come fondamentali per la riproduzione di una vita antagonista. Allo stesso modo ci scambiamo già farmaci, racconti di incubi e ci teniamo strett* a vicenda, ma ancora questi sono visti come atti accessori, come mere conseguenze invece che come componenti costitutivi della nostra lotta. Il mio sogno è di una politica che riconosca l’importanza vitale di calore e estasi, e che comprenda la loro vitalità – la loro potenza di vita e crescita. Posso vedere questa potenza creare nuove forme, nuove organizzazioni, addirittura nuove istituzioni. Potremmo avere clubs come la CNT e cliniche come le Black Panthers, trovando tanta eccitazione nei primi quanta cura nelle seconde.

Ancora più importante, tuttavia, è che permettiamo a questo riconoscimento d’informare tutto delle nostre politiche, di non isolarle in alcuni dei nostri spazi ma di accettarle in ognuno di essi. Insieme, l’estasi e il calore sono le condizioni indispensabili di qualsiasi progetto rivoluzionario; esse attenuano il dolore che s’impossessa dei nostri sogni e ci portano a quei momenti che ci fanno sognare di nuovo. Noi dobbiamo, come questione di grande urgenza, evadere dalla logica che dice che le lotte devono distruggerci e renderci miserabili, e invece iniziare a costruire culture che sono affettuose tanto quanto eccitanti.

Cerchiamo quindi di raggiungere l’estasi al di là di noi, permettiamoci di protenderci per essa fin dove pensiamo di poterlo fare. Ma, allo stesso tempo, non permettiamo al nostro tentativo di afferrare l’estatico di allontanarci da quello che è già intorno a noi: il grande caloroso abbraccio delle/dei nostr* compagn*. Raggiungendo e abbracciando a turno, troviamo quello con cui potremmo diventare qualcosa di più, più animato, più euforico, più curato, più amato. Nel calore e nell’estasi troviamo la possibilità di vivere una vita infinitamente migliore di quella che viviamo correntemente.

La nostra sopravvivenza può benissimo essere radicale, ma il nostro fiorire è rivoluzionario.