Traduzione del pezzo di Automnia: “Ecstasy & Warmth“, pubblicato su The Occupied Times.
Nelle ultime settimane mi sono immerso nell’idea del fugitive planning. Nel loro libro “The Undercommons“, Fred Moten e Stefano Harney parlano di “una piattaforma comune, un energico set di posizioni… una notazione, uno studio e un punteggio fattosi tangibile” che sono “praticate su e oltre l’orlo della politica, nel suo sottosuolo.” La veloce melodia di queste parole mi ha tormentato dall’ultima tornata elettorale, e questo, senza dubbio, perché fa rima in maniera così stretta con quello che ho visto attorno a me. Gli eventi di maggio sembrano aver rilasciato una sommessa onda di conversazioni, un nuovo, delicatamente montante movimento di discussioni sul fare piani, e pianificare la fuga dall’insopportabile futuro che il nuovo governo sembra promettere.
Ma questo è anche un pianificare come scusa escapista per sfuggire al più che insopportabile presente. Ci chiamiamo a raccolta in modo da poter sedere nella calorosa oscurità che si raduna nel retro dei pub, e in modo di stare insieme alle persone che ci fanno sentire meno sole, meno spaventate, meno indifese. Tuttavia non importa quanto calore proviamo, sentiamo sempre il bisogno di negarlo. No, diciamo, non siamo venuti per stare insieme, ma per produrre; indichiamo fieri la nostra agenda adempiuta, evidenziamo le nostre azioni, ci crogioliamo nel senso di realizzazione che proviene dal prefiggersi nuove cose da realizzare.
Questa negazione è un sintomo dei corpi avvelenati con cui facciamo politica; corpi avvelenati dal lavorismo e dalla mascolinità eteronormativa che ci fa rivoltare contro la cura, non importa quanto secretamente bramiamo il suo abbraccio.
Marx disse che “la tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi”, ma è più un avvelenamento che un brutto sogno. I ritmi, modi e movimenti di lavoro e patriarcato non possono essere abbattuti da qualche momentaneo risveglio; sono così potenti in virtù della loro penetrante pervasività. Come tossine si nascondono in noi, e da noi filtrano nei nostri spazi. È questo veleno che rode il nostro organizzarci dall’interno, ma che lo attacca anche dall’esterno. Quando Owen Jones sputa bile su “assemblee antagoniste usate come terapia di gruppo” è questo avvelenamento che lo muove. La triste realta è che lui è così abituato alle tossine del lavoro e del machismo che l’idea di un antidoto contro di esse lo nausea.
Non ho molto da dire sulla prassi, quello lo lascerò ad altre persone molto più incisive e perspicaci di me. Invece sono interessato nelle strategie e tattiche già diffuse nella riproduzione della vita antagonista. Per vita antagonista intendo il vivere di tutte quelle persone per cui la sopravvivenza quotidiana è sinonimo di lotta. Eccomi qua, come penso siamo tutt*, per sempre indebitat* con Silvia Federici, i cui lavori così acutamente identificano “la distruzione dei nostri mezzi di sussistenza [riproduzione]” come fondamentale per l’oppressione che proviamo. Gli agenti di questa distruzione prendono una moltitudine di forme; possono essere il razzista sul nostro autobus, il sessista nella nostra strada, il transfobico nella nostra toilette, il padrone di casa alla nostra porta. Sono la brutalità poliziesca quanto il basso salario, la cattiva salute come la cattiva volontà.
L’unico vero modo per sopravvivere a queste cose è pianificare, ed è quello che la maggioranza di noi fa. Usciamo con amici che sappiamo ci copriranno le spalle, che risponderanno ai colpi, che non accetteranno questo o quello, e dopo andiamo a casa e prendiamo le pillole che qualche compagn* ha lasciato lì. Ci stringiamo vicini ai nostri amici per passare tra le barriere, lasciamo i/le bambin* con i nostri genitori e facciamo la lavatrice dai vicini. Noi pianifichiamo, noi ci organizziamo, e facciamo questo tutti i giorni, senza mai fermarci abbastanza per chiamarla politica. Abbiamo le nostre pratiche, il nostro pensare, la nostra “piattaforma comune, un energico set di posizioni… una notazione, uno studio e un punteggio fattosi tangibile”. Il fugitive planning è già un fatto della nostra vita.
Quello che mi interessa di più è la riproduzione di questa pianificazione, che è anche, beninteso, la riproduzione della vita antagonista da cui viene generata. Sembra che sopravvivere sia spesso cercare qualcosa per cui valga la pena sopravvivere, e se questo è vero per come sopravviviamo, dovrebbe anche essere vero per come ci organizziamo. Così arriviamo ai due affetti che sento essenziali alla riproduzione delle nostre vite: l’estasi e il calore.
Estatico è il momento d’intensità trascendentale; lo provi nei club ed ai concerti quando sei pers* nella folla e nella musica. È la sensazione che provi quando non sei sicur* di dove sei, ma la ragione per cui esci è tornare là. Sono quei momenti di estasi che ci aiutano a resistere al lacerante tedio della sopravvivenza; sono così preziosi per noi perché ci offrono un po’ di sfogo, un po’ di evasione, per quanto fugace. Questo è, suppongo, l’essenza di vivere per il weekend. “La febbre del sabato sera” è un film sull’estatico. Possiamo pensare a un migliore avatar di questo affetto di Tony Manero? Del futuro “chi se ne fotte” dice al suo padrone, “il futuro è stasera, mi devo preparare!”.
Anche il calcio è un gioco che riguarda la produzione di estasi. È un teatro che scrive se stesso, e che, quando dà il suo meglio, produce sempre momenti di pura eccitazione . Si è parlato molto ultimamente del Clapton FC; un club di calcio dove un gruppo di fans chiamato “Clapton Ultras” ha guadagnato una reputazione per la folla inclusiva e radicale che creano sulle gradinate. Molte persone si sono concentrate sui cori che la folla canta o sulle bandiere che sventola, ma tutto questo manca il punto – la cosa più importante è la folla stessa.
Infatti, per essere più specifici, quello che veramente importa è cosa la folla stia consciamente producendo – il potenziale per l’estasi. Non dimenticherò mai il momento in cui James Briggs segnò un gol impossibile nella finale di coppa contro il Barking. La sensazione è stata indescrivibile, ma estasi è la parola che arriva più vicina a rendergli giustizia; una gioia moltiplicata mille volte dalla comunizzazione di essa tra la folla. Quello che rende il Clapton speciale è la possibilità di provare questa gioia da parte di chi è solitamente esclus* da altri campi di calcio, che sia per il bigottismo della folla dentro di essi o per il costo dei biglietti richiesti per entrare nello stadio e di conseguenza provare quell’esperienza. Il mio punto è questo; che il gusto dell’estatico non può essere esclusivamente per uomini bianchi eterosessuali abbastanza ricchi da poter permettersi di comprare gli abbonamenti dei club della Premier League.
Non possiamo, tuttavia, sopravvivere di sola eccitazione. L’estatico è potente solo quando è circondato da un altro, cruciale, affetto: il calore. È difficile trovare un altra parola per ciò che intendo con calore, perché è veramente un composito di molte sensazioni: sicurezza, vicinanza, comfort, agio, riposo. Suppongo che il calore sia venire rilasciat* da un fermo e trovare i propri amici e amiche che ti aspettano, ma è anche guardare un film tranquill* in compagnia. Il calore è ciò che rende la nostra lotta sopportabile, ammorbidisce i bordi della nostra rabbia e del nostro dolore e ci ferma dall’autolesionismo. Tu parli a amiche e amici dei tuoi incubi sui poliziotti e loro ti ascoltano, ti dicono che li hanno anche loro. Non fa scomparire gli incubi, non lo fa mai, ma indebolisce l’ombra che gettano sulla tua giornata.
Come ho detto all’inizio, il potenziale per il calore risiede nei molti incontri che già abbiamo. Quello che serve è smettere di combattere la sua esistenza. Invece dovremmo accettare l’inerente calore della vera collettività; chiederci l’un l’altra delle nostre vite, offrirci aiuto dove possiamo, spingere i contorni della nostra lotta oltre gli stretti confini del “politico”. Non dovremmo aver paura di trattenerci quando l’ordine del giorno è finito, nemmeno di provare piacere nel semplice fatto di essere lì, tra compagn*, tra amici/che.
Forse possiamo immaginare il comunismo come la delucidazione di questo calore ed estasi, come il loro emergere dall’eccezione dentro al quotidiano. La comunizzazione ci appare di conseguenza come il tentativo consapevole di creare spazi e collettività favorevoli alla produzione di questi affetti. Il nostro fugitive planning coinvolge già il far serata al club o andare allo stadio, ma quello che vorrei è che la gente riconosca queste attività come fondamentali per la riproduzione di una vita antagonista. Allo stesso modo ci scambiamo già farmaci, racconti di incubi e ci teniamo strett* a vicenda, ma ancora questi sono visti come atti accessori, come mere conseguenze invece che come componenti costitutivi della nostra lotta. Il mio sogno è di una politica che riconosca l’importanza vitale di calore e estasi, e che comprenda la loro vitalità – la loro potenza di vita e crescita. Posso vedere questa potenza creare nuove forme, nuove organizzazioni, addirittura nuove istituzioni. Potremmo avere clubs come la CNT e cliniche come le Black Panthers, trovando tanta eccitazione nei primi quanta cura nelle seconde.
Ancora più importante, tuttavia, è che permettiamo a questo riconoscimento d’informare tutto delle nostre politiche, di non isolarle in alcuni dei nostri spazi ma di accettarle in ognuno di essi. Insieme, l’estasi e il calore sono le condizioni indispensabili di qualsiasi progetto rivoluzionario; esse attenuano il dolore che s’impossessa dei nostri sogni e ci portano a quei momenti che ci fanno sognare di nuovo. Noi dobbiamo, come questione di grande urgenza, evadere dalla logica che dice che le lotte devono distruggerci e renderci miserabili, e invece iniziare a costruire culture che sono affettuose tanto quanto eccitanti.
Cerchiamo quindi di raggiungere l’estasi al di là di noi, permettiamoci di protenderci per essa fin dove pensiamo di poterlo fare. Ma, allo stesso tempo, non permettiamo al nostro tentativo di afferrare l’estatico di allontanarci da quello che è già intorno a noi: il grande caloroso abbraccio delle/dei nostr* compagn*. Raggiungendo e abbracciando a turno, troviamo quello con cui potremmo diventare qualcosa di più, più animato, più euforico, più curato, più amato. Nel calore e nell’estasi troviamo la possibilità di vivere una vita infinitamente migliore di quella che viviamo correntemente.
La nostra sopravvivenza può benissimo essere radicale, ma il nostro fiorire è rivoluzionario.