“Tanica di benzina e via andare”

Suggestioni dal ’77 bolognese

Alcuni mesi fa abbiamo incontrato alcuni e alcune ex-militanti dell’Autonomia Operaia bolognese. Davanti a qualche bicchiere, Lucia, Giorgio e Valerio ci hanno raccontato come è stato vivere quegli anni, quali forme-di-vita irrequiete animavano la città-feudo del PCI e cosa è avvenuto prima, durante e dopo il ’77 bolognese. Questi sono alcuni estratti della conversazione, pubblicati originariamente sulla rivista Qui e Ora.

Sulle forme di vita

L: La vita collettiva era sempre e per situazioni diverse, che potevano essere di cazzeggio come di relazione amicale, di studio, di analisi politica. Non eri mai da solo: andavi in posti dove trovavi x persone, non una o due, con le quali condividere qualcosa. Questo è difficile da comprendere adesso. Era una dimensione molteplice, comune, sempre. Questo a tutti i livelli, anche per quanto riguardava i quartieri.
Posso fare l’esempio dell’esperienza di San Ruffillo (quartiere a sud-est di Bologna, ndr), dove c’era l’ex-dazio. Anche se non ero di lì, l’ho frequentato. Ci si trovava e si organizzavano cose, che fosse la propria vita personale o strettamente politica. Tutto questo si abbracciava e si riversava sulla piazza, dove ancora si moltiplicava. In confronto alla vita prima, quella “normale”, con le regole, che avevano tutti, la collettività era balsamo per l’anima.
G: Per quanto riguarda la mia esperienza personale, la dividerei in tre periodi, a grandi linee. Il primo va dal ’70 al ’74, durante il quale il movimento era un movimento di militanti. Ci si vedeva, ci si riuniva nelle sedi delle organizzazioni o nei luoghi dove si faceva intervento politico. Lì si conoscevano i compagni, si viveva, si cominciava ad uscire al cinema tutti insieme, ci si passava le dritte su dove passare le serate. Nacquero così i primi luoghi d’aggregazione. Poi dal ’74 al ’76 il movimento si tirò indietro, più o meno sparì. Quello per me fu un momento importante perché uscivo dalle superiori e mi ritrovavo nell’università, dove vedevo che non c’era il casino che c’era alle superiori: si andava, si studiava. Contemporaneamente, questa dimensione del frequentare militanti tendeva a scemare perché i vari gruppi della sinistra extraparlamentare uno dopo l’altro entravano in crisi, per cui ci si vedeva in numeri molto più ridotti. Fu il periodo in cui prendemmo la sede di Via San Giorgio. Poi, improvvisamente, il 22 gennaio del ’77 il movimento tornò fuori. Fu per una questione banalissima: i decreti delegati sulla scuola. Partirono le occupazioni dell’università; rimase occupata ininterrottamente per mesi, anni. Il movimento mese dopo mese acquistò una forza sempre maggiore. L’equilibrio dei rapporti che c’era nella città si sbilanciò fortemente, mentre le zone controllate dal movimento da un bar e due o tre posti dove c’erano le sedi delle organizzazioni cominciarono a diventare strade, interi quartieri, case occupate da compagni, centri sociali, tutta la zona universitaria. Le basi rosse si allargarono fino ad arrivare a un punto critico, vale a dire quando venne fuori Radio Alice, che mise insieme tutte queste cose. Si aveva la sensazione che la cosa potesse funzionare veramente.
L: Un contropotere territoriale vero.
G: La città era tua: si cominciava ad andare a mangiare e al cinema senza pagare. Controllo del territorio.
V: Mi piace molto parlare di questa continuità che riguarda Bologna. In altre città l’autonomia ha avuto una nascita diversa, quella di Bologna invece è molto particolare, anche perché non è una grande metropoli. Quindi, quando dopo il convegno di Rosolina nell’aprile ’73 Potere Operaio, che ad un certo punto con le tesi di Scalzone e di Piperno aveva persino pensato di diventare partito, partito dell’insurrezione, appunto, si scioglie, Potere Operaio bolognese (che essenzialmente faceva riferimento a Toni Negri, l’area padovana) nel ’74 transita alle prime esperienze autonome. Ricordo che già nell’ottobre ’73 andavamo a prendere i primi contatti con i compagni autonomi di Milano. L’autonomia nasce già con Gatto Selvaggio e i comitati autonomi studenteschi. Noi nell’inverno tra il ‘73 e il ‘74 avevamo già, a Bologna, i primi vagiti dell’Autonomia Operaia Organizzata. In Potere Operaio, quando eravamo ancora piccolini che io avevo 18-19 anni, la questione del rifiuto del lavoro era un tratto costitutivo perché nasceva, alla lunga, dal primo operaismo italiano (dove, in generale, nasce il rifiuto del lavoro). In Potere Operaio le 36 ore pagate 40 e il rifiuto del lavoro, inteso come rifiuto del modo capitalistico di produzione, non erano soltanto uno slogan o un enunciato teorico: erano una pratica di vita.
G: “Meglio morire che lavorare.”
V: Cosa cambia nelle forme di vita? Che in Potere Operaio eravamo militanti di partito, militanti severi, divisi tra studio e lotte. Scontri di piazza con la polizia memorabili, con una strumentazione che non vi sto a descrivere perché sarebbe troppo lungo. Già qualcuno cominciava a praticare piccole illegalità (mai confessate perché poteva essere problematico all’interno dell’organizzazione), ma quello che poi cambiò è che, in base alle questioni del rifiuto del lavoro e delle forme di vita, si fece avanti la forma di vita dell’illegalità di massa. Da allora, fino al ’79-’80, si visse di illegalità collettiva.
G: Questo porta a un discorso sulla differenza tra legalità e legittimità. Vale a dire:ciò che è legale è istituzionale, ma ciò che è legittimo è determinato dai rapporti di forza. Se andavamo a tirare i pomodori a Andreotti non ci succedeva niente, se uno di voi va a fischiare Renzi lo vengono a prendere a casa il giorno dopo.
V: La gente si autoriduceva la bolletta o trovava il sistema di bloccare il contatore.
L: Ho vissuto un anno e mezzo coi gettoni delle gettoniere.

 Ma anche noi all’istituto d’arte, c’era una supplente che rompeva i coglioni e la macchina subito, la prima cosa. Tanica di benzina e via andare, ma alla brutta proprio. Eh oh, rompeva il cazzo.

V: Per quanto riguarda la mia esperienza, che può essere paradigmatica della vita dei tempi, nel ’73 mi iscrissi all’università e, essendo di famiglia molto modesta, avevo diritto al presalario: 750.000 lire annue. Nel ’75 ci comprai una bella R4 color becco d’oca. Il problema era come mantenere questa cazzo di auto e come mantenere te mentre facevi militanza autonoma e guidavi la Renault R4. Questo era affidato all’illegalità, che faceva spesso forza sui saperi operai tecnici, come, ad esempio, bloccare un contatore, portar via i gettoni senza spaccare la gettoniera (così dopo te la riempivano), falsificare bollo dell’auto o biglietti del treno. Io la macchina 5 anni l’ho tenuta, per 5 anni non ho pagato il bollo. Le gomme e la benzina le rubavi da altre auto o al distributore.
G: Tra il ’76 e il ’78 la cosiddetta autonomia diffusa, chi gravitava attorno al movimento o che era nel movimento, viveva nell’illegalità senza neanche averne pienamente coscienza. Fumare marijuana per la città o vivere in una casa occupata non è che fosse proprio legalissimo, girare con gli autobus senza biglietto non è che fosse… però la maggior parte viveva così.
L: Il bello era viaggiare ovunque senza pagare. Autostop, treno non pagato. L’autobus a Bologna fino al ’77 per gli studenti era gratuito. Poi lo misero a 50 lire e a quel punto le macchinette venivano sabotate tutte; alla fine non si pagava comunque.
G: Per molti compagni questa roba era ormai normale. Mi dispiace ed è triste che molti non lo ricordino, perché era il risultato di una forza che si aveva.
L: Come anche a scuola. In particolare negli istituti tecnici, i rapporti di forza erano tali che non è che bisognasse fare chissà che sciopero interno per imporsi. Se una cosa non quadrava, il collettivo andava a parlare con l’insegnante. Noi fumavamo in classe, i professori no. Chiaro che per mettere un attimo a posto le cose c’erano le realtà organizzate. Se il preside era faccia di merda gli saltava la macchina e poi si stava tranquilli.
V: Sìsì eh, hai voglia. Ne sono andate a fuoco tante così. Ma anche noi all’istituto d’arte, c’era una supplente che rompeva i coglioni e la macchina subito, la prima cosa. Tanica di benzina e via andare, ma alla brutta proprio. Eh oh, rompeva il cazzo.
L: Non c’era bisogno di proclami o rivendicazioni: stava nelle cose.
V: Nelle superiori c’erano modalità veramente originali. I rapporti di forza erano tali per cui alla prima ora chi ci andava? Nessuno. Alzarsi così presto? Ma tu sei fuori. Prima delle 10 non si presentava nessuno.
G: Io ho fatto un’ora di lezione di matematica in quarta.
V: La ricreazione durava un tempo indefinito. I rapporti di forza ti consentivano anche di imporre il voto. Non è che si azzardassero tanto a bocciare. Il 6 minimo garantito. Il discorso è che o mi dai il 6 politico o ti salta la macchina, o anche le rotule.
L: Quando me ne sono andata di casa, le prime 2 settimane ho dormito al collettivo dell’Aldini, che non era la mia scuola. Era quella la rete, non è che i compagni facessero un piacere a me. Era una dimensione diversa.
G: L’Aldini era il fiore all’occhiello del PCI. Una scuola costruita come una fabbrica.
V: Quello che era straordinario erano anche le forme di vita nelle scuole, soprattutto negli gli istituti tecnici, che a Bologna erano il grosso del movimento, quando erano occupate. Alle Aldini c’erano figli di operai che avrebbero dovuto seguire le orme dei padri. Oltre a farsi i cazzi propri e alle attività culturali alternative, si puntava alla gioia di vivere, di fare cazzate divertenti. Durante le occupazioni, in questa scuola, che siccome era una fabbrica aveva i montacarichi al posto degli ascensori, il divertimento era portare una 500 all’ultimo piano e andare a manetta per i corridoi. I compagni delle Aldini ci hanno stupito tantissime volte. Si andava a vedere le corse per i corridoi, dentro le aule… banchi sbaragliati, sedie per aria… Mi sono divertito un casino. il PCI era impazzito ché gli trattavamo così il fiore all’occhiello.
Il contagio, il virus è una buona rappresentazione del propagarsi dell’autonomia e della rivoluzione, perché c’era poca ideologia e molto senso del pratico, del vivere quotidiano, della materialità.
G: A 14 anni il mio primo approccio alla rivoluzione fu con l’Unione dei Comunisti Marxisti Leninisti che pubblicava “servire il popolo”. Gli articoli erano su quanto stessero bene i lavoratori in Cina. Cose veramente fuori di testa, io leggevo e dicevo: “mah, che figata”. C’era ideologia, ma su Rosso c’era un inizio di critica a questa ideologia. L’autonomia iniziava ad essere una critica.
V: La caratteristica del vivere autonomo è che era proprio proiettato sul qui e ora, sul cambiamento immediato. Noi stessi eravamo la rivoluzione nel momento in cui ci trasformavamo facendo militanza. Il cambiamento, il qui e ora, era questo: il militante autonomo era la rivoluzione in sé, ora, adesso, mentre la stava facendo. C’era anche un discorso di lunga gittata, ma noi ci si rivolgeva alla materialità, poca ideologia. Chiaro, studiavamo anche molto, però non stavamo a raccontarcela.
L: C’era meno necessità di progettualità. Poi cercavamo di viver bene, mica ceneri sulla testa o ceci sotto i piedi.

 La qualità della socialità era talmente alta che senza conoscere nessuno pigliavi e andavi su. Tiravi fuori la tua roba, offrivi, prendevi, ci si conosceva.

V: Questo è un argomento che fa anche ridere volendo, ma ha importantissimo fondamento e dignità politica. Volere il lusso.
G: L’ideologia del PCI era il sacrificio. Al meglio, della dignità operaia del lavoro. L’operaio è meglio del padrone perché lavora, pensa che assurdità.
V: Pensavamo che il massimo sviluppo delle forze produttive potesse darci la possibilità di vivere senza lavorare. Abbiamo applicato quella che era già teoria politica anche di Potere Operaio alla pratica. Significava che quando si andava a battezzare un supermercato per fare spesa gratis si andava con una composizione spuria: autonomi, Lotta Continua, cani sciolti. Un osservatore attento poteva distinguere militanti autonomi e militanti di lotta continua. Quelli di Lotta Continua portavano via le cose essenziali, noi il caviale, i formaggi francesi più raffinati, il whiskey, lo champagne. Con tutta ‘sta roba si andava in sede e festa, grandissima festa. Stessa cosa le boutique: si portava via tutto e si distribuiva. Altro che autonomi cattivi, incazzati, che facevano ‘sta vita illegale. Noi ci siam divertiti un casino. Ma di cosa stanno parlando? Il nostro slogan era “duri ma con gioia”. C’era sempre festa. Giravi per Bologna e le case degli studenti le sgamavi subito perché alle finestre c’era luce, spesso intermittente, e casino bestiale. La qualità della socialità era talmente alta che senza conoscere nessuno pigliavi e andavi su. Tiravi fuori la tua roba, offrivi, prendevi, ci si conosceva.

G: Quello che distingue il cosiddetto autonomo dal resto del mondo è la radicalità. Una certa condivisione, ampia, della consapevolezza che legalità e legittimità sono cose diverse. Il pensiero radicale, essere totalmente contro lo stato presente. Il rifiutare il modo di pensare secondo cui migliorando i rapporti con il nemico, discutendo, si possano ottenere miglioramenti. Punto di vista che trovo si sia perso, conclusa l’esperienza del movimento e dell’autonomia. La visione radicale dello scontro sociale: da una parte noi, dall’altra il nemico. Alle cose si dà un certo valore a seconda di come sono in rapporto a questo scontro. La radicalità di quello che vogliamo per la nostra vita. L’idea di non voler regalare gli anni che uno ha a disposizione all’universo del lavoro.

 Se invece decidevamo politicamente che in un momento era necessario scontrarsi per una specifica strategia, attaccavamo direttamente, a freddo. Non gli si andava sotto come si fa adesso con gli scudi… spingi-spingi. È uno sbaglio che non commettevamo, il corpo a corpo è una stronzata.

V: Per tirare una riga sull’argomento, possiamo sintetizzare in poche parole: il nostro stile di militanza era uno stile che nulla toglieva alla socialità. Non abbiamo mai interpretato con sacrificio le cose che facevamo, le abbiamo sempre interpretate come la felicità di farle. La nostra è stata una militanza bella, felice, gioiosa, gaia. C’era rifiuto totale del martirio. Ci si divertiva un casino. Non è che fosse tutto rose e fiori, non le davamo sempre… magari. Ogni tanto le prendevamo, a differenza di adesso che si prendono e non si danno mai. In piazza decidevamo noi se lo scontro si faceva o no. La polizia stava cagata perché oramai sapeva che, se avesse caricato, 7, 8, 10 di loro sarebbero rimasti a terra. Era fatto assodato. Ma non roba leggera… feriti gravi.
G: Soprattutto sapevano che se avessero caricato non sarebbe finita lì, avrebbero dovuto caricare ogni giorno finché non si stancavano.
V: Se invece decidevamo politicamente che in un momento era necessario scontrarsi per una specifica strategia, attaccavamo direttamente, a freddo. Non gli si andava sotto come si fa adesso con gli scudi… spingi-spingi. È uno sbaglio che non commettevamo, il corpo a corpo è una stronzata.
L: Era tutto organizzato, soprattutto nelle manifestazioni grosse. Si rubavano le macchine e si riempivano con le molotov fabbricate la notte precedente.
G: Io negli scontri con la polizia a cui ho partecipato non ho mai visto un poliziotto da vicino.
L: Nelle manifestazioni delle donne i rapporti di forza erano diversi. Botte le ho prese due volte: una dalla celere ad una manifestazione femminista. Colpivano le donne coi manganelli solo in pancia e in faccia. L’altra volta le ho prese dalla FGCI al corteo dei medi.
G: Che non erano poliziotti… veri.
L: Nelle manifestazioni organizzate ero protetta dal servizio d’ordine. Non ho mai visto una carneficina. Stavi tranquilla anche se eri più piccola.
V: A proposito di forme di vita, c’era pure il trasporto. Anche lì era tutto affidato all’illegalità più o meno di massa. Se avevi fretta o non c’erano autobus prendevi una macchina, ma senza rovinarla.
L’aprivi, andavi dove dovevi e poi la parcheggiavi in un posto normale, chiudendo lo sportello. Uno doveva fare la denuncia, però la trovava. Serviva per spostarsi, non per rubarla. La macchina era un mezzo collettivo.
L: C’era anche un’immediatezza diversa nel riconoscersi coi compagni fuori da Bologna. Nonostante fossi una ragazzina, per andare a Milano non pagavo il treno. Milano la conoscevo poco, però trovavi sempre un compagno che ti dicesse dove andare, dove dormire. Lo davi per scontato, come era la vita in comune.

Sul femminismo

L: In quegli anni dalle compagne fu portato avanti magnificamente il lavoro che era partito da prima del ‘77. Anzitutto nei rapporti dentro la famiglia, con padri e fratelli, ma anche con i propri compagni (che erano più teste di cazzo di come sia successivamente emerso). Facevamo una doppia fatica: quella della militante e quella della femminista. La realtà era che i compagni, in situazioni pubbliche, forse per i rapporti di forza, stavano più cagati. In privato però un po’ dell’aberrazione maschilista emergeva.
Molte compagne femministe, poi, vivevano nell’intimo situazioni ambigue.
G: Potrei dire una cosa breve? Il mio rapporto col femminismo è stato segnato dal fatto che una femminista con cui stavo diceva: “tutti gli uomini sono dei bastardi tranne Giorgio”.
Mi è sempre rimasto il dubbio (rivolto a Valerio): che cazzo facevate voi, invece?
L: C’era molta ambiguità, che poi è emersa. Dicendola in due parole: su dei “fondamentali” in generale abbiamo educato i compagni. Il baratro tra i generi, però, non è stato assolto da quella lotta. C’era la questione del “leaderismo”, maschio per antonomasia, che mi faceva incazzare parecchio.
Io certi atteggiamenti di potenza da “io sono il verbo” non li ammettevo, che fossero per scherzo o veri.
Per quanto lavoro sia stato fatto, è stata dura e siamo arrivate fino a un certo punto. Devo dire che il bello dell’antagonismo di adesso è che trovo rapporti molto più equilibrati tra generi nei compagni. Mi fa pensare che non tutto sia stato vano.
Prima non esisteva un corteo dove nel servizio d’ordine o in prima fila ci fossero donne. Ora ci sono e la presenza non è formale, ma di pratica.

Dopo

L: La cosa più eclatante del dopo è stata la solitudine. Dopo l’81, al di là della mia attività politica che continuava su altri fronti, andavo in Piazza Verdi e rimanevo ferma lì. Per me era incomprensibile che si fosse dispersa tutta questa dimensione collettiva che fino a poco prima era stata il quotidiano.
Era un modo di vivere altro che alla fine si era interiorizzato nella città, era dato. Al di là dell’antagonismo, del portare avanti un progetto politico rivoluzionario,io questa collettività di vivere (anche la propria intimità) non l’ho più trovata.

 Nell’80 dopo il diploma andai a lavorare part-time come impiegata. Avevo bisogno di quei soldi, ma il mio problema principale era che l’orario mi permettesse di andare alle manifestazioni: era superiore come esigenza.

V: Cambia la quotidianità perché, a un certo punto, il movimento perde quota. Dopo il convegno del settembre ’77, il canto del cigno, c’è il momento più basso del movimento dopo le precedenti sconfitte operaie. Questo determina uno sfaldamento nella comunità antagonista in generale, che era fatta dai gruppi e da quella ampia porzione dell’autonomia organizzata o diffusa, soprattutto dopo lo sfondamento da parte del PCI attraverso Calogero e il suo teorema. Tranne pochi focolai di resistenza, dopo la fine della rivista Rosso – perché finiamo praticamente tutti in galera noi di Rosso – continua con Magazzino e poi con altre piccole esperienze, ma sostanzialmente quell’area si dissolve. Negli anni ’80 la maggior parte dei compagni autonomi più attivi dell’area organizzata era in carcere. Lì c’è un cambiamento: non solo non c’è più uno stile di militanza, ma non c’è proprio più la militanza, perché eravamo in galera o perché eravamo latitanti. Stiamo parlando di migliaia di latitanti; gli arresti erano quotidiani ed erano decine e decine al giorno in tutta Italia. Questo ha determinato nei compagni e nelle compagne quella militanza, diciamo, più o meno collaterale, di area larga.
Tutto questo purtroppo, e lo dico con molto rispetto e tantissima tristezza, ha fatto sì che noi perdessimo tantissimi compagni e compagne morti di eroina. Fu una strage: dall’80 all’82 tanti, pensando di aver interiorizzato in sé la sconfitta, non avendo la cassetta degli attrezzi per elaborare politicamente quel particolare passaggio di bassa, finirono chi nell’eroina, chi nella delinquenza comune vivendo di reati (continuando individualmente pratiche che si facevano da molto prima, ma per motivi politici), chi andò in India e abbracciò varie religioni e spiritualismi. Poi ritorno al privato: quindi chi si sposò, chi fece figli, chi trovò un lavoro. Non passano dall’altra parte, non collaborano con il nemico, semplicemente si ritirarono per i cazzi loro.
L: Io, per esempio, dal momento che me ne andai di casa a 17 anni, nel ’77, fu la dimensione collettiva ad accogliermi. Come diceva giustamente Valerio, negli ’80 tutto questo non era più possibile e dovevi pensare anche a come sopravvivere. Era molto difficile venire a patti con tutte queste cose. Ricordo il mio primo lavoro. Nell’80 dopo il diploma andai a lavorare part-time come impiegata. Avevo bisogno di quei soldi, ma il mio problema principale era che l’orario mi permettesse di andare alle manifestazioni: era superiore come esigenza. È chiaro che quando ho parlato della solitudine è perché avevo trovato una dimensione che a un certo punto non c’era più. Non potevi calcolare di sostituirla con la vita “regolare”, perché non ti dava un cazzo. Comunque, fino a metà degli anni ’80 c’è stato tutto il lavoro di sostegno ai compagni e alle compagne che erano latitanti, però non era più come prima, era una roba da carbonari, per cui avveniva per rapporti assolutamente personali e individuali. Diventava sempre più grande la separazione tra il tuo essere e quello che c’era intorno, ancora più evidente, più grande, più sentita che prima, non so come descriverlo. Credo che anche nella migliore delle ipotesi, vale a dire chi non ha avuto grosse vicende giudiziarie, chi è stato fortunato, insomma, questa separatezza se la sia portata sempre dentro. Questa separatezza io ce l’ho ancora.
G: A Bologna l’esplosione dell’eroina fu allucinante. I bar che facevano parte della rete che ho descritto prima diventarono rapidamente luoghi di spaccio.
I compagni inizialmente reagirono sprangando gli spacciatori. La cosa non funzionò. Nel giro di pochi mesi gli stessi che sprangavano diventavano a loro volta spacciatori. Questo per la natura stessa di quest’arma dello Stato. L’eroina è un veleno che si propaga per contatto: basta immetterla.
I compagni ebbero la capacità di contenere questo fenomeno solo tramite il movimento delle occupazioni e dei centri sociali, che traghettò un certo numero di compagni, forse in modo settario, dalla fine degli anni ‘70 ai ‘90. Con una politica piuttosto rigida nei confronti delle droghe pesanti riuscì a creare una sorta di cordone sanitario e consentire che una parte del potere del movimento riuscisse a riprodursi e ad arrivare fino ad oggi. Va riconosciuto a questi compagni.
L: Allora non c’era la consapevolezza che l’eroina fosse un’arma mortale. E non c’era l’AIDS, emersa dall’83, per cui sembrava semplicemente un peccato veniale. È per questo che ebbe una diffusione incredibile.
G: C’era pure un’ideologia della droga – fricchettona – nel movimento.
L: In molti compagni ci salvammo grazie alla filosofia militante per la quale non potevamo rischiare di accostarci all’eroina, pena diventare anelli troppo deboli e ricattabili.
Io sono, peraltro, una persona cui piace sperimentare le cose, però se io non mi sono accostata all’eroina è stato proprio per la politica. Per me l’autonomia è stata assolutamente un tampone.
V: Io ero un militante di struttura, avevo uno stile di vita adeguato alla mia militanza. Significa che certa droga con me non c’entrava. Era qualcosa da combattere, era il capitale, un suo strumento.
L: Beh, le canne sì. E qualche acido, la cui assunzione veniva vissuta comunque come momento conviviale.
V: Non c’era proibizionismo. L’eroina però era interpretata come droga di Stato. E combattuta in quanto tale. Senza mediazione.

Ricordi del ’77

G: Ricordo la sera dell’11 marzo ’77. Quando arrivai in piazza Verdi la vidi completamente ricoperta da cocci di bottiglie. L’atmosfera mi ricordava i film sulla rivoluzione messicana. Era molto cinematografico.
Nel pomeriggio il corteo si diresse invece verso la sede del PCI in via Barberia: era l’obiettivo. La polizia caricò. Non avevo mai visto a Bologna una carica così. Lacrimogeni ad altezza uomo: rimasero i segni sul granito del palazzo di fronte.
L: Nel ’77 era uso girare coi limoni: come ora, servivano contro i lacrimogeni. A partire dall’11 marzo a Bologna c’era uno scenario da guerra civile: carri armati a parte, gli elicotteri giravano tutto il giorno.
Come sempre quando ci incontravamo per un concentramento, prendevamo l’autobus. In quei giorni, però, gli sbirri presero a fermare gli autobus, come in Sudamerica. Se trovavano i limoni, ti fermavano: la consideravano arma impropria!
G: Queste cose la questura di Bologna le sapevano dal PCI, che gli passava fotografie e schede sui militanti. Gli avranno riferito come usavamo i limoni.
L: In Piazza Maggiore, sempre piena di gente, l’«ala creativa» del movimento faceva rappresentazioni. In quei giorni riprodussero un autobus col cartone, perché era ridicolo che li fermassero!
V: Ricordo la manifestazione del 12 a Roma. Io ero nel gruppo dell’autonomia bolognese che rappresentava la nostra parte al corteo. Molti rimasero in città. Prendemmo il treno verso le 9. Francesco Lorusso fu ucciso intorno alle 10. In centinaia, quindi, eravamo già in treno e non sapemmo niente fino all’arrivo a Roma. Mentre il treno si fermava, i compagni di Roma ci mostravano i giornali. Ricordo, mentre scendevo, il Paese Sera che diceva: “ucciso uno studente a Bologna”. Una volta scesi dal treno, telefonammo ai compagni di Bologna. Decidemmo insieme di restare a Roma: quella manifestazione dovevamo tenerla. I compagni delle varie organizzazioni ci misero in testa al corteo in onore di Francesco. Ci incamminammo per le vie di Roma e arrivammo a Piazza del Gesù, dove c’era la sede nazionale della DC. Mentre noi ci affacciavamo come cordone di testa alla piazza, i compagni dei Volsci attaccarono a colpi di molotov la sede della DC. Non ho mai visto un incendio così. Non so quante ne lanciarono, ma dovevano essere veramente tante, perché tutta la piazza si colorò di rosso… roba da Spielberg! Rimanemmo impressionati. Un tiro di molotov di quella portata non l’ho mai visto né prima e neanche dopo.

Non serviam.

Sul lavoro, la miseria che porta con sé e su come resistergli: una suggestione

Un compagno è stato intervistato da Alfabeta2 per la rubrica “Sul rifiuto del lavoro“, ma l’intervista non è più stata pubblicata a causa di ritardi tecnici.

Vista la centralità del rifiuto del lavoro come metodo di resistenza alla vita di merda nel capitalismo, come prassi rivoluzionaria e momento di soggettivazione (e visto che comunque le risposte le abbiamo già scritte), la proponiamo qui.


Puoi descrivere in breve il tuo lavoro?

Da quasi 10 anni lavoro nel settore del marketing online, dove mi sono occupato di diverse cose. Più per noia che per necessità circa ogni 2 anni ho cambiato mansione e ambito, dallo sviluppo di siti internet, alle analisi, alla gestione di campagne marketing.

Come ti sei avvicinato alla tradizione politica dell’operaismo e/o al Marxismo dell’autonomia degli anni settanta?

Per uno studente pendolare di provincia, che frequenta un istituto tecnico e nel tempo libero fa il falegname per far rientrare qualche soldo in casa diciamo ci sono poche possibilità di venire a contatto con stimoli culturali rivoluzionari. Aggiungici che non provengo da una famiglia particolarmente progressista.

Raggiunta l’indipendenza economica dai miei genitori e addentrandomi full time nel mondo del lavoro, mi sono però subito scontrato con lo schifo del precariato del terziario. Ciò, unito ad una certa curiosità e a qualche nuova amicizia, mi ha fatto avvicinare al sindacalismo e al mondo rivoluzionario, più che altro quello più propriamente socialista. Ci ho messo degli anni a scoprire la storia dell’autonomia e l’operaismo, e ciò è avvenuto grazie a qualche compagn* fortuitamente capitato nella mia vita. Quindi non ho ricevuto particolari sollecitazioni mediatiche.

Solo tramite quella che nel settore in cui lavoro chiamano word of mouth e la fascinazione prodotta in me dalle forme di vita di alcuni nuov* amic* autonom* ho sentito il desiderio di approfondire determinati studi e letture. Ho capito che la militanza, che allora vivevo come una missione, poteva significare stare meglio con gli/le altr* fin da subito, e non al compimento di un fantomatico destino rivoluzionario composto solo di sacrificio, lavoro e costruzione cinica del partito. Vivere subito il comunismo mentre si distrugge con l’agire collettivo la presa del capitale e delle istituzioni sulle nostre vite, divenendo ingovernabili.

Cosa significa per te oggi “rifiuto del lavoro”?

“Rifiuto del lavoro” vuol dire quello che ha sempre voluto dire, partendo dai limiti imposti dalla lingua italiana, che non aiuta (in inglese “lavoro salariato” è labour, “attività produttiva” è work e questo già dipinge due mondi distinti): rifiuto di produrre in un regime di obbligo o necessità.

Vuol dire rifiutare di farsi il culo per qualcun altro, sabotare i meccanismi di produzione e riproduzione di un sistema di merda, che garantisce sofferenza per molt* e ricchezza per pochi.

Vuol dire lavorare il meno possibile, sabotare il lavoro, cercando di contenere la nocività che deriva direttamente dall’imposizione di una forma esistenziale che ci prospetta (e nemmeno garantisce) la mera sopravvivenza: alienazione, stress, burnout, malattie fisiche e psicosomatiche.

Il lavoro è ciò che frustra le nostre molteplici attitudini produttive, che non possono essere soddisfatte da un ruolo imposto dalla divisione del lavoro e dalla ripartizione tra tempo produttivo e tempo “libero”.

Rifiutarlo è anche negarsi alla soggettivazione come individui in costante competizione, che vivono male oggi per godere domani di carriere e successo immaginari. È il rifuggire e decostruirci dalla reificazione neoliberista.

Ma vuol dire anche mantenere questa propensione verso la libertà ovunque, senza una distinzione tra il pubblico e il privato: il lavoro non ci è imposto solo dall’azienda, ma pure dall’ideologia, lavoro di merda è anche quello che ci costringiamo a fare a macchinetta nel volontariato ma anche come militanti rivoluzionar*, sempre seguendo la linea del sacrificio oggi per godere forse di qualcosa domani, sempre mantenendo un approccio utilitaristico e cinico nelle relazioni umane, spesso riproducendo la stessa frustrante division of labour che ci aliena.

La pratica rivoluzionaria non può essere ridotta a “negotium” come il resto dell’attività umana, credo bisognerebbe essere invece in grado di bilanciare sforzo ed “otium” (nel senso latino del termine) in un’ottica di controsoggettivazione collettiva che si determini a partire dalla decostruzione come soggetti economici, e dalla tensione a soddisfare i propri desideri.

Come cerchi di mettere in pratica questo rifiuto?

Per quanto riguarda la mia esperienza praticare questo rifiuto vuol dire rallentare e sabotare la produzione, abbassare costantemente le aspettative dei padroni. Ciò si traduce nell’organizzarsi insieme ai/alle collegh* e lo sfruttare i bug lasciati dalla controparte.

Organizzarsi, sia per lanciare delle lotte che producano un rovesciamento dei rapporti di forza rispetto alla dittatura del boss, dei suoi galoppini e del controllo tecnico, sia per sfruttare bug e diffondere il sabotaggio produttivo. Organizzarsi per fare in modo che le pause vengano rispettate, che si blocchino gli straordinari, che non ci si senta sol* quando si dice di no ad una data di consegna troppo vicina, che l’assenteismo si diffonda. È anche una costante opera di educazione reciproca con i/le propr* collegh*, perché il rifiuto del lavoro è comunque diffuso, anche se in forma di microresistenze individuali e spontanee, che comunque si possono condividere e amplificare nel momento in cui si sviluppino rapporti di complicità in ufficio. Noi militanti non siamo avanguardia e abbiamo molto da apprendere da chi lotta insieme a noi. Dobbiamo essere complici con chi sceglie di stare con noi e con cui noi scegliamo di organizzarci e condividere spazi di vita: non guide.

La complicità è essenziale, permette di pararsi il culo a vicenda con i/le collegh* e di rallentare insieme il ritmo, aiuta a tirare le linee tra i nemici e noi, a sentirsi parte di una collettività che resiste e rilancia una lotta per una vita migliore a partire da oggi.

Il colpo fatale.

Tutto il mondo è paese, pertanto la repressione e le dinamiche spettacolari che fan da voce ad essa seguono vie assai poco imperscrutabili. Le rivolte che hanno scosso l’intera Francia da marzo ad oggi hanno così scatenato le solite ridicole reazioni che vediamo in ogni sommossa: il binomio manifestanti pacifici – casseur infiltrati (qui in Italia si direbbe “black bloc”), le fughe in avanti da parte di intellettuali di sinistra seduti su comode poltrone (“non attaccate la polizia, assaltate il parlamento”), i limiti dei difensori della democrazia diretta uber alles.

In questa intervista Julien Coupat e Mathieu Burnel, già destinatari nel 2008 di misure repressive che tanto ricordano i processi No TAV e migliaia di altre inchieste dall’Italia alla Spagna fino alla Repubblica Ceca, ci offrono dei punti di vista utili per affrontare con lucidità le contro-insurrezioni che verranno. La narrazione del potere è stupida e banale, sta a noi però saperla ribaltare.

Julien Coupat e i suoi amici rifanno parlare di loro. O piuttosto, il potere ne parla di nuovo. A fine maggio il primo ministro, Manuel Valls, ha tentato di spiegare ai deputati che i debordamenti che si sono potuti vedere durante le manifestazioni contro la legge sul lavoro erano orchestrati dai black bloc e dagli “amici di Julien Coupat”. Qualche giorno più tardi, il giornale Le Point citava larga estratti di una nota della DGSI che appoggiava questa tesi. Quasi nello stesso momento, la camera d’istruzione deve decidere sulla situazione degli imputati dell’affare detto “di Tarnac”.  Da oggi alla fine del mese si saprà infatti se i fatti che gli sono addebitati siano o meno qualificabili di terrorismo. Che pensano Julien Coupat e i “suoi amici” di questo nuovo fascio di luce diretto su di loro? E che pensano di questi tre mesi di mobilitazione, dei tentativi di democrazia diretta di Nuit Debout, del ritorno in forza del tema dei “casseurs” nei media come all’Assemblea? “Quello che è veramente successo in questi ultimi mesi sono degli innumerevoli inizi, così come degli incontri fortuiti ma decisivi tra dei sindacalisti sinceri, degli studenti a cui piacciono gli striscioni rinforzati, dei liceali senza illusioni sull’avvenire che gli è stato promesso, dei salariati stanchi della vita che fanno, etc”, rispondo Julien Coupat e Mathieu Burnel interrogati da Mediapart. Se il nome del primo è divenuto celebre fin dal 2008, quello del secondo lo è quasi altrettanto. Infatti è lui, sembrerebbe, che è incaricato di combattere nelle trasmissioni televisive o radiofoniche. Intervista a due voci che ne fanno una, o molte di più.

Prima di entrare nel merito della nota della DGSI, come avete reagito apprendendo di essere nuovamente sotto i riflettori dei servizi?

Ilarità e imbarazzo. Ilarità, perché la menzogna poliziesca che consiste nel far passare gli scontri degli ultimi mesi in molte città francesi come fossero affare di qualche “casseurs” infiltrato tra i manifestanti era già qualcosa di enorme; immaginarsi oggi che i rivoltosi stessi siano infiltrati da noi e che noi li dirigiamo invisibilmente fa morire dal ridere chiunque sia sceso in strada negli ultimi tempi. L’idea poi che noi ci spingiamo la cosa fino a infiltrare la commissione Infermeria di Nuit Debout o che approfitteremmo della nostra “mediatizzazione disinibita” – mentre ogni volta sono i servizi che tentano invano di lanciare delle campagne mediatiche contro di noi, e sulle quali scivolano regolarmente – la dice lunga sulla capacità d’invenzione burlesca dell’immaginario antiterrorista.

Imbarazzo, perché sembra che i poliziotti siano i soli a non accorgersi del ridicolo delle loro costruzioni e dobbiamo pensare che questa è gente armata, numerosa, organizzata, una burocrazia che possiede i mezzi dei suoi deliri. Il desiderio di annientarci che emerge da ogni riga dei loro rapporti,  da quasi dieci anni ormai, finisce comunque per avere qualcosa di pesante. Si tratta, come sempre per l’antiterrorismo, di intimidire e in particolare di intimidirci. Caramba! Ancora un buco nell’acqua. Questo nuovo rapporto fa ridere chiunque.

Comunque, per adesso, la nota parla di voi, Julien Coupat, ma anche di una “rete affinataria” Qualche settimana prima il primo ministro Manuel Valls aveva evocato, all’Assemblea, “gli amici di Julien Coupat”. Esiste una “rete affinataria Coupat”?

Non c’è oggi “rete affinataria Coupat” come non c’era un “gruppo Coupat” nel 2008, all’epoca dei nostri arresti. Il solo luogo in Francia dove esiste un “gruppo Coupat” è manifestamente nella sede della DGSI. Quanto alla dichiarazione del signor Valls, aveva la funzione di lanciare una campagna che evidentemente non ha fatto presa. Per il suo carattere ellittico, insinuante, aveva tutto di una minaccia mafiosa – un nome di famiglia buttato lì come a dire “sappiamo chi siete e ci stiamo occupando di voi”. Per altro siamo in grado di affermare che il rapporto della DGSI risponde a un ordine venuto direttamente dal signor Valls, il quale pare non abbia apprezzato l’idea che duemila occupanti di Nuit Debout una sera di aprile si siano invitati a casa sua per un aperitivo. Doveva avere un lato che faceva troppo 1789 per i suoi gusti. Oppure è l’euforia di quella serata che è tanto dispiaciuta a questo triste signore.

Chiunque conosca la carriera del signor Valls sa che tutto nella sua postura ha per vocazione quella di dissimulare una concezione profondamente mafiosa della politica. Fra gli “amici del signor Valls” c’è un certo Alain Bauer che non ci perdona di essersi fatto ridicolizzare e puntualmente “intortare”. Detto questo, comprendiamo senza alcuno sforzo che questa gente si incazza vedendo come gli eventi degli ultimi mesi confermano quello che è scritto nell’ultimo libro del Comitato Invisibile, Ai nostri amici. È difficile non sentire nella carica contro i “nostri amici” una certa irritazione a riguardo di Ai nostri amici, poiché sappiamo che quella gente lo ha letto.

Voi organizzate “delle riunioni clandestine che mirano a mettere in piedi un movimento rivoluzionario, architettando delle attività aventi per fine di indebolire le istituzioni statali” come dice la nota?

Ecco il genere di frasi che non possono leggersi senza immediatamente pensare al recente affare di Rennes, dove sarebbe stata smantellata una “associazione a delinquere” che si riuniva nei locali del sindacato Sud-Solidaires mentre si preparava a “sabotare” la metro della città incollando degli autodesivi sulle macchine per timbrare i biglietti, oppure introducendovi della mousse espansa. Quello che sta accadendo in questo paese è che, con tutta evidenza, la politica classica non offre  alcuna uscita da una situazione intollerabile e che sempre più persone ne prendono atto. Il primo riflesso è allora di organizzarsi con i propri mezzi, poiché le strutture esistenti fanno tutte parte del problema e non della soluzione. Questo riflesso è un riflesso vitale, profondamente sano. È una bella cosa, in queste condizioni, che ci si ritrovi, che si elaborino dei piani, delle ipotesi, delle strategie, che si discuta, che si condividano dei mezzi, che si viaggi anche per stabilire dei nuovi contatti, piuttosto che restare a casa propria, di abituarsi all’isolamento prescritto e a un futuro che ha la forma di un mattatoio. È il non farlo che sarebbe davvero spaventoso. Migliaia di persone lo stanno facendo in questo stesso momento, perché noi non dovremmo farlo? Dopodiché, quando un movimento rivoluzionario fa irruzione sulla scena della storia è raro che qualcuno possa vantarsi di averlo “messo in piedi”. Quanto alle “istituzioni statali”, non hanno certo aspettato noi per indebolirsi di per sé, come è sufficientemente attestato dall’esistenza di un presidente che si chiama François Hollande. Non commenteremo l’espressione “riunione clandestina”, la quale esprime solo l’amarezza degli agenti della DGSI per esserne stati esclusi, per quanto ciò è possibile.

Prendiamo degli altri estratti pubblicati da Le Point. Mi piacerebbe che voi li commentaste:
« Esperti delle tattiche di violenza urbana, molto mobili, riescono a confondersi tra i rivoltosi incoraggiandoli a delle deambulazioni selvagge fuori dell’itinerario previsto e nel corso delle quali vengono commessi numerosi reati. Questa strategia è stata provata in più riprese queste ultime settimane a Parigi, a Rennes, a Bordeaux e a Grenoble ».
« Giocando sull’ambiguità della loro mediatizzazione disinibita fin dall’affare di Tarnac, sviluppano il loro progetto politico sfruttando la contestazione sociale in corso».
« Il messaggio insurrezionale, abitualmente limitato a delle sfere anarchiche che disprezzano le mobilitazioni sociali, oggi diviene udibile grazie alla rete affinataria Coupat. »

Di rapporti “segreti-difesa” della DGSI o della SDAT su di noi, accumulati lungo questi anni, ne abbiamo un pacco. È un vero e proprio genere letterario che si può apprezzare solo a patto di capire a chi si rivolgono e a quale fine sono scritti.  In questo caso, uno scribacchino della sezione “sovversione violenta” della DGSI deve accontentare il signor Valls. Immaginate se poteva scrivere solamente che noi partecipiamo alle manifestazione della legge “lavora!”, che abbiamo scritto un certo numero di testi al riguardo e che abbiamo partecipato a delle discussioni in place de la République. Questo non divertirebbe nessuno e neanche un giornale oserebbe pubblicarlo.

A questo bisogna aggiungere che tutte le “informazioni” contenute in questo documento rivelano che si tratta del lavoro di un pigro, cioè: degli ascolti amministrativi (e quindi autorizzati direttamente dal primo ministro) delle nostre linee telefoniche. Come potete immaginare, noi possiamo anticipare questi ascolti. «In seguito alla vostra autorizzazione d’intercettazione di sicurezza in urgenza, siamo felici di dirvi Signor ministro che Julien Coupat e Mathieu Burnel pensano di incontrarsi a place de la République questo giovedì». Se scrivesse una cosa del genere lo scribacchino si farebbe cacciare, allora si inventa delle infermerie cospirative e delle riunioni clandestine “alla testa della lotta insurrezionale”. Come che sia, tutto ciò dice molto di più  sull’attuale stato febbrile dell’apparato di governo che non su quello che succede effettivamente in piazza e ai blocchi.

Questa nota esce qualche giorno dopo l’esame della camera d’istruzione in merito alla situazione degli imputati nell’affare detto “di Tarnac”, per sapere se bisogna o meno qualificare di terrorismo i fatti rimproverati. La decisione deve essere resa nota alla fine del mese di giugno. Un anno fa, in un’intervista a L’Obs, voi dicevate a proposito della magistratura che essa “crede di poter sistemare tutto dietro le quinte, inviare dei segnali alla Corte prima delle sue decisioni, torcere il collo a ogni logica e mettere a morte chi si è reso colpevole di lesa maestà”. Questa uscita della DGSI potrebbe essere un “segnale alla Corte”?

Questo nuovo rapporto della DGSI non è una “fuga” che in effetti viene a caso: è comunicata alla stampa nel momento stesso in cui la camera d’istruzione deve decidere, nell’affare detto “di Tarnac”, del non-luogo a procedere o del nostro rinvio davanti a un tribunale per “terrorismo”. La manovra è trasparente. Si tratta di far capire alla giustizia la seguente cosa: ogni decisione favorevole agli imputati non tarderà a essere smentita da delle nuove operazioni di polizia contro alcuni di loro: prendete la giusta decisione…

In quell’intervista all’Obs, voi denunciate il fatto che l’antiterrorismo è divenuta una maniera di governare, di relegare il sociale in secondo piano. Il sociale è tornato in primo piano ed è la CGT che oggi viene trattata da terrorista. È Nathalie Saint-Cricq, su France 2, che parla di “tecnica rivoluzionaria ben orchestrata” a proposito di questo sindacato, così come la fa Gattaz, come lo fa Valls… Philippe Martinez si è unito alla rete Coupat?

Philippe Martinez si sta giocando in questo conflitto la legittimità contestataria della sua organizzazione in rapporto alle altre formazioni sindacali, e la propria legittimità contestataria in seno a questa organizzazione – legittimità che gli mancava del tutto dopo l’ultimo congresso della CGT. Premesso ciò, vedendo in tante città il numero dei CGTisti che raggiungono il corteo autonomo di testa e sfilano, bandiere al vento, con i giovani mascherati, o addirittura si organizzano con loro, non si può sottostimare il solco che ormai divide, in molti luoghi, la direzione dalla base. Non ci si spiega la postura presa da Philippe Martinez in questi ultimi tempi se non si misura la necessità, per la direzione, di riassorbire questa distanza.  A questo punto non è sicuro che esista ancora qualcosa come “la CGT”, che del resto è sempre stata una federazione. C’è la CGT che bastona i manifestanti a Marsiglia e quella che distrugge i locali del PS a le Havre. C’è la CGT che sabota le linee telefoniche in Alta Loira, autoriduce le fatture di centinaia di migliaia di utenti dell’EDF e quella che vorrebbe negoziare qualche briciola con il governo. C’è la CGT che ha per obiettivo di essere davanti alla CFDT e quella che ha per obiettivo il blocco dell’europeo di calcio. Ci sono anche dei Servizi d’Ordine che si battono tra di loro, in piena manifestazione, per determinare la direzione da seguire. Poca gente ci capisce qualcosa, tanto meno il governo. Ciò detto, non bisogna mai dimenticare che, dal 9 marzo, le centrali sindacali non fanno che seguire il movimento. L’appello iniziale a manifestare venne da parte di un gruppo di youtubers e da una donna che aveva lanciato una petizione. Le centrali si sono aggregate perché non avevano scelta. Come si dice a Nantes, “non è la manifestazione che deborda, è il debordamento che manifesta”.

La figura del casseur (teppista) occupa da settimane i media, i politici e i sociologi. Come la definite voi?

Media, politici e sociologi dovrebbero preoccuparsi meno di cercare di individuare gli introvabili contorni del “casseur” e semplicemente domandarsi: perché, ormai, tanti atti di distruzione sono accolti dal corteo di testa con degli applausi? Perché, quando un’innocente cassa dell’Autolib si fa fracassare, la folla intona “tutto il mondo detesta Bolloré [CEO di Vivendi, ndr]”?

Almeno a partire dall’aperitivo da Valls, quando il boulevard Voltaire fu integralmente ripulito dalle sue banche nell’assenso generale, al suono di slogan molto espliciti, c’è sempre più gente che manifesta la propria approvazione della distruzione, quando questa prende di mira degli obiettivi evidenti. Il fatto che un atto di devastazione puro e semplice scateni un tripudio nel corteo dei cittadini a volto scoperto non è più sorprendente e più interessante, che l’atto in se stesso e del suo misterioso “autore”? Quando gli si mostra la luna, l’imbecille guarda il dito.

Se i “casseurs” non esistono, c’è evidentemente della gente che si organizza per prendere l’iniziativa in strada o, almeno, per non subire la gestione delle truppe poliziesche. Si comprende facilmente che questo renda isterico il potere: ovunque c’è della gente che si organizza direttamente, il potere è reso superfluo, disoccupato, destituito. È quindi questo processo che bisogna propagare dappertutto, in ogni settore della vita, a ogni scala dell’esistenza. Un ospedale preso in mano dagli infermieri e dagli inservienti sarà sempre più respirabile che tra le mani dei manager, come ormai è la realtà. Che il potere tremi guardando all’espansione di processi di organizzazione autonoma di base, e specialmente nelle manifestazioni, non autorizza affatto a intonare la retorica anti-casseur. Tutta questa inesauribile retorica, vecchia quanto le manifestazioni, mira solo a isolare la frazione più intrepida, a volte più temeraria, dei manifestanti. Mira soprattutto a bloccare in ognuno di noi l’accesso alla propria facoltà di rivolta, a deviarci dalla liberazione che può creare, a un certo punto dell’esistenza, il fatto di mascherarsi, di mettersi dei guanti e dare prova di coraggio.

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In un articolo apparso su lundi.am, l’editore Eric Hazan dice che prendersela con la polizia “non è intelligente” e ricorda che “in tutte le insurrezioni vittoriose, dalla presa della Bastiglia fino alla cacciata di Ben Ali e Moubarak, il momento decisivo è stato quello in cui le forze dell’ordine hanno disertato”. Perché i giovani “casseurs”, chiamiamoli così per facilità, non prendono d’assalto le sedi delle banche alla Défense per esempio, o anche la sede della DGSI, o qualsiasi altro luogo del potere? Questi duelli polizia-manifestanti, insomma, non sono una cosa stressante che non ottiene grandi risultati?  

Siamo contenti di annoverarvi tra coloro che si preoccupano del fatto che l’insurrezione sia vittoriosa. E la suggestione di andare ad assaltare le sedi delle banche alla Défense o quella della DGSI non può che risuonare dolcemente all’orecchio di gente che, come noi, l’anno scorso ha organizzato, nello stesso periodo, l’operazione “Occupy DGSI” a Levallois-Peret per protestare contro la legge sulle indagini.  Tuttavia noterete che se, grazie al sostegno di Mediapart, noi arrivassimo in qualche migliaia organizzati e ed equipaggiati come si deve alla Défense o a Levallois, ci sono grandi possibilità che vi troviamo anche qualche migliaio di robocop armati. Diciamo che la polizia ha la spiacevole tendenza a porsi tra noi e gli obiettivi che ci proponiamo di attaccare, per cui quello che appare spesso come uno sterile duello polizia-manifestanti risulta piuttosto da una difficoltà a superare l’ostacolo poliziesco – che è molto meglio armato e meno sensibili ai casi di coscienza di quanto lo siamo noi.

Il punto di accordo che abbiamo con Hazan è che bisognerà sicuramente creare un cuneo nel blocco poliziesco affinché, cedendo, gli attuali gestori del potere vadano a fare la coda a Villacoublay per prendere il prossimo jet. Non siamo d’accordo con lui sulla maniera di arrivarvi. Eric pensa che si possa fare gridando “la polizia con noi!”. Noi pensiamo che lo si faccia esercitando sul corpo poliziesco una pressione popolare, fisica e morale tale che una sua parte arrivi a dissociarsi dal 50% che già vota FN e si vede già come una piccola S.r.l. in una prossima rivoluzione nazionale. Ma forse la cosa più sottile sarebbe quella di dare a vedere che c’è un disaccordo pubblico tra noi e Hazan, sul modello della tecnica “good cop-bad cop” in un interrogatorio della DGSI. Così l’avversario verrebbe destabilizzato quanto alle nostre vere intenzioni nei suoi confronti e più disposto ad arrendersi. Come che sia, ciò che convinse i poliziotti della prefettura di polizia di Parigi a passare dal lato dell’insurrezione nell’agosto del 1944, non erano i loro sentimenti comunisti ma la paura, se non lo avessero fatto, di farsi trucidare dai parigini per tutto quello che gli avevano fatto subire durante l’Occupazione.

Voi dicevate nel maggio 2015 : « Viviamo dei tempi radicali. Lo stato delle cose non può durare, l’alternativa tra rivoluzione e reazione si indurisce. Se della decomposizione in corso ne approfittano essenzialmente le forze fascisteggianti non è perché “la gente” inclinerebbe naturalmente verso di loro, bensì perché esse gli danno una voce, fanno delle scommesse, si assumono il rischio di perdere». La sinistra radicale ha l’aria in questi ultimi tempi di prendersi dei rischi. Ancora non si sa se perderà, ma quale bilancio fate voi di questi tre mesi di mobilitazione?

Per cominciare, bisogna disfarsi dell’idea che abbiamo a che fare con un “movimento sociale”. Quello che sta succedendo nel paese da tre mesi non ha l’aspetto, di massa in apparenza ma indeciso in realtà, di quello che in Francia si conosce, da lustri, sotto il nome inoffensivo di “movimento sociale”. Ancor meno si tratta di un “movimento sociale contro la legge Lavora!”. La legge “Lavora!” non è altro che la legge di troppo, l’affronto che fa andare al fronte.

Il rifiuto che si esprime è molto più ampio del rifiuto di una legge; è il rigetto di tutta una maniera di essere governati e forse, per alcuni, il rifiuto puro e semplice di essere ancora governati. È tutta la politica, di destra come di sinistra, che appare come uno spettacolo oscillante tra il patetico e l’osceno.  Il desiderio generale è che questa brutta commedia finisca, e infine di tentare di comprendere le vere questioni di un’epoca cruciale e terribile allo stesso tempo. Siamo su di una nave che sta andando diritta verso un iceberg e sulla quale non si vuole parlare di altro che del vestito di questa o quella contessa in questa bella serata danzante. Gli apparati governamentali hanno dato prova di impotenza su ogni piano. Non ci resta che l’insurrezione, ovvero imparare a fare le cose senza di loro.

Cioé?

Quello che prende la forma esteriore di un “movimento sociale” contro una legge particolare è piuttosto l’entrata in una fase politica di piano (plateau), di alta intensità, che non ha alcuna ragione di fermarsi fino alle presidenziali, se queste alla fine avranno luogo, ma ha invece tutte le ragioni di continuare, di metamorfosarsi, di spostarsi, di investire continuamente dei nuovi fronti. Non si riesce a immaginare, per esempio, che il Partito Socialista possa tenere tranquillamente la sua università d’estate alla fine di agosto a Nantes.

Quello che è veramente successo in questi ultimi mesi sono degli innumerevoli inizi, così come degli incontri fortuiti ma decisivi tra dei sindacalisti sinceri, degli studenti a cui piacciono gli striscioni rinforzati, dei liceali senza illusioni sull’avvenire che gli è stato promesso, dei salariati stanchi della vita che fanno, etc. Ovunque nel paese, delle forze autonome si sono aggregate e continuano ad aggregarsi. Un potere che non ha più un’oncia di legittimità si troverà di fronte, a ogni nuovo passo che farà, l’ostinata volontà di farlo cadere, di spazzarlo via. C’è una rabbia e una determinazione che non sono di “sinistra”.

“Essere di sinistra” ha sempre avuto qualcosa di vago, di molle, di indeciso, di benintenzionato ma non al punto di agire di conseguenza. Quello che accade in Francia da tre mesi a quata parte ha infatti a che fare con l’impossibilitò di essere ancora di sinistra sotto un potere socialista. È una fuga fuori da ogni quadro della sinistra, o anche la loro implosione; ed è una gran buona cosa. La sconfitta della retorica anti-casseur lo testimonia. La diga morale che separava il rifiuto platonico del corso delle cose e l’assalto diretto a ciò che si rifiuta, una diga morale che costituiva la sinistra e la sua caratteristica vigliaccheria, è saltata. Presentare la diserzione della sinistra come la costituzione di una nuova “sinistra radicale” è quel genere di escamotage opportunisti, quel tipo di prestidigitazione politica, quella tipica manovra di recupero senza vergogna che bisogna lasciare ai futuri candidati alle presidenziali e a tutti quelli che speculano su ciò che vivono gli altri. È una cosa che non funzionerà, poiché tutti abbiamo visto quello che è successo in Grecia l’anno scorso e recentemente in Spagna. Non ci sono più creduloni che cadono in queste truffe.

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Voi siete andati alla Nuit debout di Parigi. Che cosa avete visto? Che ne avete tratto?

Nuit debout ha permesso a ogni genere di disertore di incontrarsi, parlarsi, costituire un contro-spazio pubblico, ma soprattutto di offrire una continuità a quello che non poteva aggregarsi attraverso dei giorni di sciopero o delle semplici manifestazioni. È servita come punto di partenza a ogni sorta di meritoria azione contro dei bersagli logici.

Per il resto, se il signor Valls si è incaricato, con il suo 49-3, di dimostrare tutta l’inanità della democrazia rappresentativa, le Assemblee Generali di Nuit debout a place de la République hanno mostrato l’inanità della democrazia diretta. Quello che diceva il Comitato Invisibile in Ai nostri amici sulle assemblee generali, e che un anno fa sembrava così scandaloso, è divenuta una saggezza condivisa, almeno dagli spiriti più onesti. Fare l’assemblea, discorrere e poi votare non è manifestamente la forma per eccellenza dell’agire politico, è solo la sua forma parlamentare, cioè la più spettacolare e certamente la più falsa tra tutte.

Niente può meglio testimoniare della confusione che regna tra gli spiriti a place de la République della maniera in cui si è diffusa, come una scia di polvere, la bizzarra idea che dovevano incaricarsi di redigere una nuova Costituzione, invece che interrogarsi sui mezzi di abbattere la Costituzione vigente.

Sempre nell’intervista all’Obs già citata, dicevate che “la sola speranza dei governanti è quella di convincere ognuno che non esiste un’altra scelta a quella di seguirli, che è vano credere di poter costruire altri mondi, insensato organizzarsi contro di loro e suicidario il fatto di attaccarli. Per questo Tarnac deve essere decapitata. Per questo le ZAD devono essere messe in riga, sia dal punto di vista giudiziario che con l’aiuto delle milizie”. L’attuale movimento sociale, le Nuit debout un po’ ovunque in Francia, la nuova organizzazione delle manifestazioni, con i suoi cortei offensivi davanti e i sindacalisti dietro, somiglia a questa organizzazione che il potere vorrebbe impedire.

Effettivamente. Il potere non si è risparmiato nessuno sforzo per riuscirci. Non riuscendovi ha tentato risibilmente di mobilitare il debordamento dei fiumi contro il debordamento delle strade. Ora è con l’Europeo di calcio che tentano senza vergogna di ricoprire quello che succede, e presto lo si farà con il Tour de France. È davvero un gioco sporco. E la dice lunga su quello che è diventato l’esercizio del potere e la sua profonda miseria. L’impiego dell’Europeo come dispositivo controinsurrezionale, ha il merito di rimettere qualche idea in campo. E testimonia anche di quanto sia poca cosa ciò su cui il potere ancora si poggia.

Voi presentate comunque un paradosso: da un lato, spiegate molto chiaramente come e perché lo Stato vuole sbarazzarsi di voi – “decapitare Tarnac” -, dall’altro, ve ne lamentate. Siete dei rivoluzionari ma sembra che non sopportiate che lo Stato si difenda, anche se spiegate che sia logico che lo faccia.

A nostra conoscenza, non ci siamo mai lamentati di niente. In noi non esiste la minima disposizione al lamento. La denuncia contiene sempre qualcosa di ipocrita o da cattivo perdente. Tutti detestano le vittime, cominciando dalle vittime stesse.

Quello che facciamo è piuttosto mettere a nudo le operazioni degli avversari, strappare il velo di legittimità con il quale le istituzioni si coprono per dispiegare le loro miserabili strategie, per abbigliare le loro piccole manovre. Quando il potere decide di eliminarci politicamente, scatena la polizia antiterrorista, si nasconde sotto la maschera e il linguaggio della giustizia, mette in campo tutto un insieme di inchieste, procedure, falsi processi-verbali, false prove di expertise, etc.. Ma la nuda verità è che vuole distruggerci e che la giustizia antiterrorista è il miglior strumento per conseguire questo scopo.

Allo stesso modo, quando il potere circonda dei manifestanti, gli spacca la testa a colpi di bastoni di plastica o gli tira delle granate in faccia, dicono sia per “mantenere l’ordine”, di “proiettili” lanciati da non si sa chi, di inchieste e di contro-inchieste,  di “polizia delle polizie”, etc. Che buffonata!  L’apparato di Stato è una mafia che ha vinto le altre, la polizia una banda armata, la prigione un rapimento impunito, il nucleare una minaccia di morte fatta contro ogni tentativo di trasformazione politica, le tasse una rapina con il consenso, etc. Le istituzioni sono delle mistificazioni alle quali in Francia si vota un culto tanto incomprensibile come quello del cargo in Melanesia. E vi è tutta una guerra, una guerra allo stesso tempo sorda e rumorosa, per mantenere a galla questa città di sogno che non smette di affondare nelle lagune del tempo.

In un testo co-firmato con l’editore Eric Hazan, apparso il 24 gennaio scorso su Liberation, scrivevate: “Quello che prepariamo non è un assalto ma un movimento di sottrazione continuo, la distruzione attenta, dolce e metodica di ogni politica che plana al di sopra del mondo sensibile”, o ancora, “Abbiamo un anno e mezzo per formare, a partire dalle amicizie e dalle complicità esistenti, a partire dai necessari incontri, un tessuto umano abbastanza ricco e sicuro di sé per rendere […] derisoria l’idea che far scivolare una busta in un’urna possa costituire un gesto – a fortiori un gesto politico”. Si capisce bene che non andrete a votare nel 2017. Allo stesso tempo, le grosse macchine dei partiti e i grandi media si preparano già a non parlare d’altro o quasi durante i prossimi dieci mesi. Come possono restare udibili i fronti aperti recentemente?

Se vi si riflette, è già sorprendente che un’onda di rivolta come quella che dura da più di tre mesi accada a un anno dall’elezione presidenziale. In tempi normali non se ne parlerebbe più da settimane, se non nelle piccole dichiarazioni degli uni e degli altri,  nelle desolanti ambizioni di tizio e caio, e si farebbe finta di credere che abbiano qualche importanza. È già un grande successo, per la nostra parte, di essere riusciti a respingere finora l’inizio del pietoso spettacolo della campagna presidenziale. C’è una penosa ironia nel fatto che il primo vero atto della campagna sia stato compiuto da quello che pensa di togliere le castagne dal fuoco delle lotte in corso, all’occorrenza Jean-Luc Melanchon. Allo stesso tempo, raramente i trucchi della democrazia rappresentativa alla francese sono stati così rozzi. È chiarissimo che questa elezione presidenziale non è un momento in cui noi possiamo esercitare la nostra libertà, ma un ultimatum che ci è rivolto. È evidente anche che il Front National è un prodotto del sistema politico attuale, un prodotto della sua decomposizione certamente, ma comunque un prodotto del sistema.

Le prossime elezioni fanno pensare, su di un’altra scala, all’enormità che è il referendum locale sull’avvenire di Notre-Dame-des-Landes: niente di più “democratico” in apparenza che un “referendum locale”.  In realtà niente di più manipolatorio: il perimetro della consultazione è stato determinato dopo un sondaggio, perché vinca il “sì”. Detto altrimenti: c’è una decisione sovrana che si nasconde sotto ogni consultazione democratica ed è la decisione di chi voterà, quando e per cosa; questo costituisce la vera decisione, mentre “i risultati dello scrutinio” non sono altro che una peripezia senza importanza.

Ciò che si può augurare di meglio alle forze autonome che si sono aggregate in questi ultimi mesi è che vadano incontro le une alle altre e formino un tessuto di realtà sempre più profondo, più intenso e più estraneo allo spettacolo politico, che si abbia una separazione generale tra un discorso pubblico sempre più vano ed extraterrestre e dei processi locali di organizzazione, di pensiero, di incontro e di lotta sempre più densi. Il livello di discredito della politica è tale nel paese che un simile processo sembra immaginabile. Noi lo abbiamo chiamato “destituente” perché, per la sua semplice esistenza e attraverso i suoi interventi puntuali, distruggerebbe passo a passo la facoltà del governo di governare. In fondo, questa messa in scacco delle  successive strategie governamentali, riportate a essere dei minuscoli gesti abortiti, non è ciò di cui siamo testimoni da più di tre mesi?

Su di un muro parigino, dopo una manifestazione, si poteva leggere questa tag: “Le presidenziali non ci saranno”. Voi pensate che un blocco totale è possibile? Cosa potrebbe provocare il colpo fatale?

Quello che fa difetto alle mobilitazioni in corso è di natura affermativa. Non riusciremo a trapassare l’ostacolo che abbiamo di fronte fino a quando non punteremo a qualcosa al di là, fino a quando non discerneremo, fosse anche attraverso un’immagine, i contorni del mondo che desideriamo, un mondo che lasci posto a ogni tipo di mondo. Leggiamo in Ai nostri amici: « Non è la debolezza delle lotte che spiega l’evaporare di ogni prospettiva rivoluzionaria: è l’assenza di una prospettiva rivoluzionaria credibile che spiega la debolezza delle lotte. Ossessionati come siamo da un’idea politica della rivoluzione, abbiamo finito per trascurarne la sua dimensione tecnica. Una prospettiva rivoluzionaria non poggia più sulla riorganizzazione istituzionale della società, bensì sulla configurazione tecnica dei mondi».

Questo ci sembra più giusto che mai. Per quanto riguarda la campagna elettorale, forse è di questo che dovremmo discutere, in ogni cantiere, in ogni città, in ogni campagna, nell’anno che viene. L’umanità e la terra sono in uno stato pietoso. Ovunque, gli esseri si costruiscono su delle gigantesche falle narcisistiche. Anche gli spiriti più moderati si sono fatti l’idea che non possiamo continuare a vivere così. Siamo arrivati a un’estremità della civiltà. Una trasformazione è necessaria. Noi non ci fermeremo. E questa trasformazione non sarà solo sociale, sarà innanzitutto esistenziale.

L’attuale vita sociale ricopre con la sua vernice delle angosce profonde, dei terrori perfettamente palpabili. Paradossalmente, è discendendo in noi stessi, lasciandoci cadere, che ritroveremo il mondo, il mondo comune. E non in una socializzazione più compiuta della società. Quello che c’è di inevitabilmente superficiale in ogni discorso politico, lo condanna alle orecchie dei nostri contemporanei. Il “blocco totale” si farà quando non ci sarà più lo “spettro della penuria”, quando l’angoscia economica di mancare di qualcosa non servirà più da minaccia tra le mani dei governanti, quando ci sentiremo legati dalla verità. Non è mai successo che milioni di persone si lascino morire di fame, a fortiori milioni di persone che hanno lottato insieme.

Allora, percepiremo nell’arresto dell’organizzazione economica del mondo non più una minaccia, ma l’occasione di trovare altre maniere di fare, di accedere a una vita nuova, più viva, più splendente, più potente infine. Questa serenità è il “colpo fatale”.

Sì ma, e l’Europeo di calcio allora…

Volete dire: un piano governamentale che, appena cominciato, non ha l’aria di svilupparsi senza qualche difficoltà…

Immaginiamo allora che questa destituzione abbia avuto luogo, che succede dopo? Che cosa avviene il giorno dopo?

La destituzione è già all’opera da mesi in ogni incontro, in ciascuna delle audacie che costituiscono la vitalità di questo “movimento”. La questione del giorno dopo, di quello che succede dopo, in una parola l’angoscia delle garanzie, ecco qualcosa che non ha alcun senso nell’attualità integrale del conflitto. Come diceva quell’altro, “Hic Rhodus, hic salta”: “Qui c’è la paura, qui bisogna saltare”.


L’intervista è tratta dal sito Mediapart del 13 giugno 2016 ed è pubblicata integralmente su lundi.am e in italiano a questo indirizzo