Allucinazione metropolitana

Il sole che penetra tra le imposte gli trafigge gli occhi costringendolo a svegliarsi tredici minuti prima che l’allarme della sveglia tentasse di trapanargli il cervello. Andrea si siede sul letto: anche oggi è vivo. Conta i suoi passi silenziosi – non può svegliare Diana e Azzurra, stanno ancora dormendo – mentre si dirige in cucina: undici. Apre l’armadietto sopra al fornello e forse per un attimo è davvero felice perché inaspettatamente ci sono ancora i biscotti nonostante fosse convinto di averli finiti. Dieci minuti di doccia e poi di corsa verso il lavoro ché sono le 6:45 ed è già tardi.
Da lontano scorge la serranda del bar già alzata e spera non sia stato il proprietario a farlo perché significherebbe che inquinerà i suoi sensi già di primo mattino. Appena mette piede nel bar, Andrea nota nell’ordine: la faccia afflitta di Nadia, l’orrendo Ivano Namemi e l’assenza di espressione sul volto di Diego. Merda.
Ivano Namemi è il proprietario di una catena cittadina con 7 punti vendita la cui mancanza di personalità è supplita da una gran quantità di retorica sull’uomo fattosi da sé. Sì, perché Ivano è figlio di un pover’uomo e di una povera donna e questa è con tutta probabilità una delle cose peggiori che potessero capitare a Andrea.
L’imprenditore proprio in virtù, dice lui, della consapevolezza delle sue radici sostiene di tenere a rimanere coi piedi per terra e perciò ogni mattina si reca in uno dei suoi sette locali per spendere la giornata lavorandovi. Namemi forse è davvero convinto di lavorare, forse gli piace narrare la sua persona così, ma fatto sta che, cascasse il mondo, Andrea è convinto di non averlo mai visto adoperarsi, eccezion fatta per qualche caffè, quelli glieli deve riconoscere.
Ivano passa le giornate a ronzare attorno ai suoi dipendenti, costretti a lavorare con questa orticante presenza che tenta, possiamo dire quasi senza interruzione, di spiegare loro come applicarsi meglio in un lavoro che lui non ha mai fatto, a provare a urtare “per sbaglio” il culo di Nadia o delle altre bariste e a provare a seminar zizzania tra i suoi stipendiati quando ad esempio non ha voglia di pagare loro la tredicesima.
Andrea trattiene il sospiro per evitare che Namemi lo interpreti come un appiglio per fargli un discorso motivazionale, sposta l’interruttore del suo cervello su “off” e inizia a lavorare.
Il giorno seguente Andrea spegne la sveglia delle 6, si obbliga ad alzarsi e in quindici minuti è in strada, diretto verso casa di suo nonno, vecchio carabiniere in pensione, vedovo, di cui ha le chiavi perché sia mai che stia male mentre è solo e per soccorrerlo bisogna sfondare la porta. Apre la porta, sguscia in casa, apre il cassetto del mobile marroncino a fianco alla porta, prende la pistola di suo nonno e torna sul marciapiede.
Alle 7:10 Andrea è nel locale di Via Glicine e spara a Ivano.

Lavorare stanca! [video completo]

Approfittiamo del magnifico momento in cui molte/i di noi si trovano (il ritorno a lavoro dopo qualche giorno di vacanza, grande fatalità depressivo-distruttiva) per proporre il video completo proiettato durante la serata contro il lavoro salariato e la sua retorica “Lavorare Stanca!

Noi individuiamo nella disciplina del lavoro salariato uno dei bastioni dell’ideologia liberale che ci incatena: non è vita quella che si spende aspettando la fine del turno, il fine settimana, le vacanze, la pensione.
Il posto di lavoro è anche il luogo dove noi, che non abbiamo altro da vendere che non il nostro tempo e la nostra forza lavoro, subiamo più pesantemente la pervasività del capitalismo ed i suoi capisaldi: lo sfruttamento, l’alienazione, i rapporti di potere che ci annichiliscono come esseri umani.

Battersi contro il capitalismo vuol dire anche battersi contro il lavoro. Già in tante e tanti gli resistiamo, lo rifiutiamo più o meno ideologicamente: bisogna continuare a lottare e farlo insieme per essere più forti e per realizzare un mondo in cui la quotidianità non sia scandita dal suono di una sveglia.

Lavorare stanca!

Serata contro il lavoro salariato e la sua retorica

Sabato 16 dicembre dalle 19 al Circolo Berneri, Bologna

– Cena benefit vegana di autofinanziamento per compagne/i inguaiate/i dallo Stato!
– Musica, proiezioni e dibattito aperto a tutti/e (escluso chi: “io anche se non ne avessi bisogno lavorerei comunque, sai che noia sennò!” ed altri crumiri)

Partecipa all’evento: https://www.facebook.com/events/1989547207932356/

 

Non serviam.

Sul lavoro, la miseria che porta con sé e su come resistergli: una suggestione

Un compagno è stato intervistato da Alfabeta2 per la rubrica “Sul rifiuto del lavoro“, ma l’intervista non è più stata pubblicata a causa di ritardi tecnici.

Vista la centralità del rifiuto del lavoro come metodo di resistenza alla vita di merda nel capitalismo, come prassi rivoluzionaria e momento di soggettivazione (e visto che comunque le risposte le abbiamo già scritte), la proponiamo qui.


Puoi descrivere in breve il tuo lavoro?

Da quasi 10 anni lavoro nel settore del marketing online, dove mi sono occupato di diverse cose. Più per noia che per necessità circa ogni 2 anni ho cambiato mansione e ambito, dallo sviluppo di siti internet, alle analisi, alla gestione di campagne marketing.

Come ti sei avvicinato alla tradizione politica dell’operaismo e/o al Marxismo dell’autonomia degli anni settanta?

Per uno studente pendolare di provincia, che frequenta un istituto tecnico e nel tempo libero fa il falegname per far rientrare qualche soldo in casa diciamo ci sono poche possibilità di venire a contatto con stimoli culturali rivoluzionari. Aggiungici che non provengo da una famiglia particolarmente progressista.

Raggiunta l’indipendenza economica dai miei genitori e addentrandomi full time nel mondo del lavoro, mi sono però subito scontrato con lo schifo del precariato del terziario. Ciò, unito ad una certa curiosità e a qualche nuova amicizia, mi ha fatto avvicinare al sindacalismo e al mondo rivoluzionario, più che altro quello più propriamente socialista. Ci ho messo degli anni a scoprire la storia dell’autonomia e l’operaismo, e ciò è avvenuto grazie a qualche compagn* fortuitamente capitato nella mia vita. Quindi non ho ricevuto particolari sollecitazioni mediatiche.

Solo tramite quella che nel settore in cui lavoro chiamano word of mouth e la fascinazione prodotta in me dalle forme di vita di alcuni nuov* amic* autonom* ho sentito il desiderio di approfondire determinati studi e letture. Ho capito che la militanza, che allora vivevo come una missione, poteva significare stare meglio con gli/le altr* fin da subito, e non al compimento di un fantomatico destino rivoluzionario composto solo di sacrificio, lavoro e costruzione cinica del partito. Vivere subito il comunismo mentre si distrugge con l’agire collettivo la presa del capitale e delle istituzioni sulle nostre vite, divenendo ingovernabili.

Cosa significa per te oggi “rifiuto del lavoro”?

“Rifiuto del lavoro” vuol dire quello che ha sempre voluto dire, partendo dai limiti imposti dalla lingua italiana, che non aiuta (in inglese “lavoro salariato” è labour, “attività produttiva” è work e questo già dipinge due mondi distinti): rifiuto di produrre in un regime di obbligo o necessità.

Vuol dire rifiutare di farsi il culo per qualcun altro, sabotare i meccanismi di produzione e riproduzione di un sistema di merda, che garantisce sofferenza per molt* e ricchezza per pochi.

Vuol dire lavorare il meno possibile, sabotare il lavoro, cercando di contenere la nocività che deriva direttamente dall’imposizione di una forma esistenziale che ci prospetta (e nemmeno garantisce) la mera sopravvivenza: alienazione, stress, burnout, malattie fisiche e psicosomatiche.

Il lavoro è ciò che frustra le nostre molteplici attitudini produttive, che non possono essere soddisfatte da un ruolo imposto dalla divisione del lavoro e dalla ripartizione tra tempo produttivo e tempo “libero”.

Rifiutarlo è anche negarsi alla soggettivazione come individui in costante competizione, che vivono male oggi per godere domani di carriere e successo immaginari. È il rifuggire e decostruirci dalla reificazione neoliberista.

Ma vuol dire anche mantenere questa propensione verso la libertà ovunque, senza una distinzione tra il pubblico e il privato: il lavoro non ci è imposto solo dall’azienda, ma pure dall’ideologia, lavoro di merda è anche quello che ci costringiamo a fare a macchinetta nel volontariato ma anche come militanti rivoluzionar*, sempre seguendo la linea del sacrificio oggi per godere forse di qualcosa domani, sempre mantenendo un approccio utilitaristico e cinico nelle relazioni umane, spesso riproducendo la stessa frustrante division of labour che ci aliena.

La pratica rivoluzionaria non può essere ridotta a “negotium” come il resto dell’attività umana, credo bisognerebbe essere invece in grado di bilanciare sforzo ed “otium” (nel senso latino del termine) in un’ottica di controsoggettivazione collettiva che si determini a partire dalla decostruzione come soggetti economici, e dalla tensione a soddisfare i propri desideri.

Come cerchi di mettere in pratica questo rifiuto?

Per quanto riguarda la mia esperienza praticare questo rifiuto vuol dire rallentare e sabotare la produzione, abbassare costantemente le aspettative dei padroni. Ciò si traduce nell’organizzarsi insieme ai/alle collegh* e lo sfruttare i bug lasciati dalla controparte.

Organizzarsi, sia per lanciare delle lotte che producano un rovesciamento dei rapporti di forza rispetto alla dittatura del boss, dei suoi galoppini e del controllo tecnico, sia per sfruttare bug e diffondere il sabotaggio produttivo. Organizzarsi per fare in modo che le pause vengano rispettate, che si blocchino gli straordinari, che non ci si senta sol* quando si dice di no ad una data di consegna troppo vicina, che l’assenteismo si diffonda. È anche una costante opera di educazione reciproca con i/le propr* collegh*, perché il rifiuto del lavoro è comunque diffuso, anche se in forma di microresistenze individuali e spontanee, che comunque si possono condividere e amplificare nel momento in cui si sviluppino rapporti di complicità in ufficio. Noi militanti non siamo avanguardia e abbiamo molto da apprendere da chi lotta insieme a noi. Dobbiamo essere complici con chi sceglie di stare con noi e con cui noi scegliamo di organizzarci e condividere spazi di vita: non guide.

La complicità è essenziale, permette di pararsi il culo a vicenda con i/le collegh* e di rallentare insieme il ritmo, aiuta a tirare le linee tra i nemici e noi, a sentirsi parte di una collettività che resiste e rilancia una lotta per una vita migliore a partire da oggi.