Scritte ai quattro venti

La scrittura è uno strumento che si trova storicamente ad intersecarsi coi rapporti di potere. All’affacciarsi del secolo XII inizia la transizione da una cultura quasi esclusivamente orale ad una cultura visiva, cosa che porta ad un’esistenza congiunta e complementare della trasmissione per via verbale e di quella per via scritta. L’invenzione della stampa porta al coronamento di tale centralità della parola scritta. Ciò che va sottolineato ora è come fosse il potere costituito a determinare la mentalità alfabeta della comunità. In una realtà prettamente analfabeta, erano le istituzioni ad utilizzare il congiunto di trasmissione orale e scritta al fine di comunicare ai sudditi i testi, le normative, le leggi che si aveva il bisogno di divulgare (all’atto pratico ciò consisteva in una lettura totale o parziale del testo creando una situazione di stampo cerimoniale). Tali documenti venivano poi affissi in luoghi pubblici, rappresentazione fattuale dell’esistenza delle normative, degli statuti, delle leggi; era quindi il potere a determinare la funzione stessa della scrittura.

Agire in tal modo era per il potere costituito anche una celebrazione di sé stesso: anche nel caso in cui la maggioranza dei componenti di una comunità non fosse alfabetizzata, non sempre era nel contenuto dello scritto ciò che è importante; ad essere centrale poteva essere la sua funzione di segnale di dominio o di grandezza del potere. La cura artistica e grafica del segno era pianificata e di carattere simbolico per conferire allo stesso un’aura di solennità.

Col progressivo alfabetizzarsi della società, ci fu un fiorire di scritture esposte (con questo termine si intende quello scritto posto in spazi che permettano una lettura di massa su una superficie esposta, ad esempio un muro). Nel ‘600 non era raro trovare sulle pareti scritture non poste dall’autorità né presenti per celebrarlo, ma finalizzate alla critica o al dissenso. Lo spazio urbano diventò cosi uno strumento utile alla circolazione della comunicazione. Altra tipologia di scritture che sfuggivano all’autorità erano le scritture contenenti infamie, insulti, parole lascive. Per la repressione di entrambe le categorie, le istituzioni fossero esse temporali o spirituali, si muovevano per eliminarle. Non si trattava per forza di un’azione “istituzionale” da parte del potere: la storia presenta più e più casi in cui figure di potere indignate da tali scritte incitarono o organizzarono le élite per intervenire muniti di spazzola in difesa della decenza, della devozione a Gesù e del disamore per la bruttura.

Impossibile ora non tracciare un parallelismo tra l’indecenza invocata nel ‘600 e il degrado di cui ci si riempie la bocca alla vista di una scrittina sul muro. A che fine abbattere la funzione storica della scrittura esposta popolare? L’unica risposta plausibile sta nella storica volontà di dominio totale dello spazio grafico da parte delle istituzioni, anche se si trovano ad essere, ovviamente, in possesso della maggior parte degli spazi grafici pubblici.

La domanda da porsi a questo punto è se si desidera essere quegli uomini di Chiesa seicenteschi che andavano a pulire le strade “in difesa dell’onore di Dio” o se si ambisce ad altro al di là di questo grigiore.

Oh! Signor dottore, come l’ha intesa? L’è proprio tutta al rovescio

Ore 19:50 di lunedì 15 aprile, crolla sotto le fiamme una guglia della cattedrale di Notre Dame. Irreparabile colpo al cuore di panna collettivo dell’Occidente, elemento architettonico più caratteristico della cattedrale! Tutto vero, non fosse che quella guglia era stata smontata a fine ‘700 per essere ricostruita da Eugène Viollet-le-Duc nel 1860.

Eugène, un signore, uno storico dell’arte, un restauratore che nella vita puntava non al mantenimento o alla riparazione dell’edificio, ma al “ristabilirlo in uno stato completo che può non essere mai esistito in nessun momento”. Eugène aggiungeva, distruggeva opere posteriori non “medievali” che non aderivano al supposto “stato completo”. Ohibò, dov’è allora l’opera che non può morir mai, di fronte alla quale dobbiam piangere se brucia un pezzettin del suo codin? A pensar male si fa sempre bene, pare che più che reale, l’idea d’opera immortale sia un fantasma cui riferirsi con morbosità religiosa dopo la caduta degli dèi.

Notre Dame in fiamme e l’angoscia per la fine del mondo, tutto pare crollarci addosso, tutti che annaspano. Attacchi di panico, qualcuno si riscopre ecologista, qualcun altro cerca qualche gibbo del terreno cui aggrapparsi; occhi lucidi rivolti ad uno sfocato passato mitico, lo vedono cadere assieme alla guglia. La guglia di Eugenio che produceva un passato, medioevo immaginario, che non possiamo escludere ora avrebbe idea di rifarla aggiungendo pure un paio di gargoyle (esattamente come ha aggiunto tutti gli altri).

L’angoscia per la fine del mondo e stringersi nella tragedia collettiva; contro la solitudine ci si scalda al fuoco della nostra storia. Storia che non c’è, storia che è sempre storia di oppressi e oppressori, che diventa storiografia che la guarda con 1000 sguardi diversi. Non troveremo la “memoria” condivisa nemmeno specchiandoci nel medioevo; dispiace, dovremo scaldarci con qualcos’altro.

L’unica chiesa che illumina è quella che brucia, ma dalla cattedrale, spenta o accesa, non è obbligatorio cercare illuminazione. Notre Dame è come tanto segno dell’esistenza e della produzione dell’elemento umano, oggetto cui si possono lanciare occhiate interessate per l’una o per l’altra ragione (storica, architettonica, …). La distruzione sta nello spezzarsi della catena che costringe la vita nella miseria. I suoi simboli fatti a pezzi esaltati come oggetto fine a sé stesso, li obbliga nello spettacolo. Tutto attorno a noi è segno di potere; le nostre città, la disposizione dei loro elementi sono l’esplicitarsi del potere. L’iconoclasmo non è la via: se deve bruciare, che bruci tutto, la priorità non è delle chiese.

Non c’è solo l’utile, c’è anche il dilettevole

Marchionne è morto: bene. Sarebbe stato meglio fossero stati i rapporti di forza a fargli scegliere tempo fa di occupare il suo tempo facendo altro al posto di logorare il tempo dei lavoratori? Sì, dato che significherebbe che sarebbero a noi favorevoli.
Posto questo rimane comunque lecito lasciarsi strappare un sorriso dalla morte di Marchionne. Chi dice che non lo è poiché inutile sbaglia sia perché è un sorriso dato dall’odio di classe, sia perché non si vive solo per l’utile, ma anche per il dilettevole. Felicitarsi della morte di qualcuno non è eticamente sbagliato, a meno che non si stia giocando a fare i buffoni e si voglia dare qualche dignità ai concetti di pietas e umanità o si abbiamo allucinazioni di confuse danze macabre. A questo punto c’è chi dice che non lo si dovrebbe fare perché il “Marchionne-uomo” è diverso dal “Marchionne-padrone”, che quando una persona infima sta male o muore non c’è più utilità nello sprecare parole per essa perché non rappresenta più nulla. Ebbene: è una gran fesseria. La lotta di classe non è lotta contro il simbolo, è lotta che si dispiega nella materialità di questo mondo. Il “Marchionne-uomo” e il “Marchionne-padrone” sono lo stesso soggetto, non possono essere scomposti. I padroni sono marciume anche in quanto individui, non solo in quanto “simboli”, perché vivono con noi su questa Terra, non in una poesia.

CIAO PICCOLO ANGELO

Non restiamo umani

A quanto pare lo slogan che una nutrita parte di chi si oppone al governo attuale ha deciso di adottare è “restiamo umani“.
Basta invitare a conservare la propria “umanità” a fronte di un continuo attacco da parte della destra che si propone come forza “materialista”?
La Lega e il resto della reazione vogliono e riescono a rappresentarsi come forza con i piedi per terra, lontana dalla metafisica benpensante che vogliono attribuire a tutti coloro che li considerano uno spreco di ossigeno. A questo punto, però, parliamoci chiaro: che cos’è dire “restiamo umani” se non metafisica di bassa lega? Parlare di umanità per affrontare la retorica fascista è andare in guerra in mutande con in mano un’arma fatta di aria e sabbia. Dire “restiamo umani” significa nutrire un perverso piacere per la sconfitta.
Parlare di umanità è esclusivamente parlare di moralità utilizzando altri termini per non dar l’idea d’essere preti. Una volta detronizzato Dio dall’ideale di perfezione, ci si impegna per far sedere l’ideale di Umano sulla sacra seggiola. Si distrugge l’idea di Dio come ente e ci si tiene stretta la morale del vecchio feticcio per addobbare quello nuovo.
Se si utilizza come metro la moralità, l’Umano e il fascista sono per forza di cose due figure che divergono nettamente. Ma è vero? No. Nel momento in cui un soggetto è biologicamente un essere umano, sarà un uomo che sia una gran brava persona o che sia un fascista, un molestatore, un assassino e stupratore seriale.
L’umanità è quindi un nuovo modo di chiamare lo Spirito: si può opporre al fascismo lo Spirito Santo? A meno che Salvini non sia posseduto dal demonio, possiamo azzardare un “no” come risposta.
Questo Spirito Santo composto di valori borghesi, moderatezza e amore per il prossimo nostro non è materialismo e non è per questo un’arma contro il fascismo. Chi crede altrimenti, vada a prendere i voti.

“Tanica di benzina e via andare”

Suggestioni dal ’77 bolognese

Alcuni mesi fa abbiamo incontrato alcuni e alcune ex-militanti dell’Autonomia Operaia bolognese. Davanti a qualche bicchiere, Lucia, Giorgio e Valerio ci hanno raccontato come è stato vivere quegli anni, quali forme-di-vita irrequiete animavano la città-feudo del PCI e cosa è avvenuto prima, durante e dopo il ’77 bolognese. Questi sono alcuni estratti della conversazione, pubblicati originariamente sulla rivista Qui e Ora.

Sulle forme di vita

L: La vita collettiva era sempre e per situazioni diverse, che potevano essere di cazzeggio come di relazione amicale, di studio, di analisi politica. Non eri mai da solo: andavi in posti dove trovavi x persone, non una o due, con le quali condividere qualcosa. Questo è difficile da comprendere adesso. Era una dimensione molteplice, comune, sempre. Questo a tutti i livelli, anche per quanto riguardava i quartieri.
Posso fare l’esempio dell’esperienza di San Ruffillo (quartiere a sud-est di Bologna, ndr), dove c’era l’ex-dazio. Anche se non ero di lì, l’ho frequentato. Ci si trovava e si organizzavano cose, che fosse la propria vita personale o strettamente politica. Tutto questo si abbracciava e si riversava sulla piazza, dove ancora si moltiplicava. In confronto alla vita prima, quella “normale”, con le regole, che avevano tutti, la collettività era balsamo per l’anima.
G: Per quanto riguarda la mia esperienza personale, la dividerei in tre periodi, a grandi linee. Il primo va dal ’70 al ’74, durante il quale il movimento era un movimento di militanti. Ci si vedeva, ci si riuniva nelle sedi delle organizzazioni o nei luoghi dove si faceva intervento politico. Lì si conoscevano i compagni, si viveva, si cominciava ad uscire al cinema tutti insieme, ci si passava le dritte su dove passare le serate. Nacquero così i primi luoghi d’aggregazione. Poi dal ’74 al ’76 il movimento si tirò indietro, più o meno sparì. Quello per me fu un momento importante perché uscivo dalle superiori e mi ritrovavo nell’università, dove vedevo che non c’era il casino che c’era alle superiori: si andava, si studiava. Contemporaneamente, questa dimensione del frequentare militanti tendeva a scemare perché i vari gruppi della sinistra extraparlamentare uno dopo l’altro entravano in crisi, per cui ci si vedeva in numeri molto più ridotti. Fu il periodo in cui prendemmo la sede di Via San Giorgio. Poi, improvvisamente, il 22 gennaio del ’77 il movimento tornò fuori. Fu per una questione banalissima: i decreti delegati sulla scuola. Partirono le occupazioni dell’università; rimase occupata ininterrottamente per mesi, anni. Il movimento mese dopo mese acquistò una forza sempre maggiore. L’equilibrio dei rapporti che c’era nella città si sbilanciò fortemente, mentre le zone controllate dal movimento da un bar e due o tre posti dove c’erano le sedi delle organizzazioni cominciarono a diventare strade, interi quartieri, case occupate da compagni, centri sociali, tutta la zona universitaria. Le basi rosse si allargarono fino ad arrivare a un punto critico, vale a dire quando venne fuori Radio Alice, che mise insieme tutte queste cose. Si aveva la sensazione che la cosa potesse funzionare veramente.
L: Un contropotere territoriale vero.
G: La città era tua: si cominciava ad andare a mangiare e al cinema senza pagare. Controllo del territorio.
V: Mi piace molto parlare di questa continuità che riguarda Bologna. In altre città l’autonomia ha avuto una nascita diversa, quella di Bologna invece è molto particolare, anche perché non è una grande metropoli. Quindi, quando dopo il convegno di Rosolina nell’aprile ’73 Potere Operaio, che ad un certo punto con le tesi di Scalzone e di Piperno aveva persino pensato di diventare partito, partito dell’insurrezione, appunto, si scioglie, Potere Operaio bolognese (che essenzialmente faceva riferimento a Toni Negri, l’area padovana) nel ’74 transita alle prime esperienze autonome. Ricordo che già nell’ottobre ’73 andavamo a prendere i primi contatti con i compagni autonomi di Milano. L’autonomia nasce già con Gatto Selvaggio e i comitati autonomi studenteschi. Noi nell’inverno tra il ‘73 e il ‘74 avevamo già, a Bologna, i primi vagiti dell’Autonomia Operaia Organizzata. In Potere Operaio, quando eravamo ancora piccolini che io avevo 18-19 anni, la questione del rifiuto del lavoro era un tratto costitutivo perché nasceva, alla lunga, dal primo operaismo italiano (dove, in generale, nasce il rifiuto del lavoro). In Potere Operaio le 36 ore pagate 40 e il rifiuto del lavoro, inteso come rifiuto del modo capitalistico di produzione, non erano soltanto uno slogan o un enunciato teorico: erano una pratica di vita.
G: “Meglio morire che lavorare.”
V: Cosa cambia nelle forme di vita? Che in Potere Operaio eravamo militanti di partito, militanti severi, divisi tra studio e lotte. Scontri di piazza con la polizia memorabili, con una strumentazione che non vi sto a descrivere perché sarebbe troppo lungo. Già qualcuno cominciava a praticare piccole illegalità (mai confessate perché poteva essere problematico all’interno dell’organizzazione), ma quello che poi cambiò è che, in base alle questioni del rifiuto del lavoro e delle forme di vita, si fece avanti la forma di vita dell’illegalità di massa. Da allora, fino al ’79-’80, si visse di illegalità collettiva.
G: Questo porta a un discorso sulla differenza tra legalità e legittimità. Vale a dire:ciò che è legale è istituzionale, ma ciò che è legittimo è determinato dai rapporti di forza. Se andavamo a tirare i pomodori a Andreotti non ci succedeva niente, se uno di voi va a fischiare Renzi lo vengono a prendere a casa il giorno dopo.
V: La gente si autoriduceva la bolletta o trovava il sistema di bloccare il contatore.
L: Ho vissuto un anno e mezzo coi gettoni delle gettoniere.

 Ma anche noi all’istituto d’arte, c’era una supplente che rompeva i coglioni e la macchina subito, la prima cosa. Tanica di benzina e via andare, ma alla brutta proprio. Eh oh, rompeva il cazzo.

V: Per quanto riguarda la mia esperienza, che può essere paradigmatica della vita dei tempi, nel ’73 mi iscrissi all’università e, essendo di famiglia molto modesta, avevo diritto al presalario: 750.000 lire annue. Nel ’75 ci comprai una bella R4 color becco d’oca. Il problema era come mantenere questa cazzo di auto e come mantenere te mentre facevi militanza autonoma e guidavi la Renault R4. Questo era affidato all’illegalità, che faceva spesso forza sui saperi operai tecnici, come, ad esempio, bloccare un contatore, portar via i gettoni senza spaccare la gettoniera (così dopo te la riempivano), falsificare bollo dell’auto o biglietti del treno. Io la macchina 5 anni l’ho tenuta, per 5 anni non ho pagato il bollo. Le gomme e la benzina le rubavi da altre auto o al distributore.
G: Tra il ’76 e il ’78 la cosiddetta autonomia diffusa, chi gravitava attorno al movimento o che era nel movimento, viveva nell’illegalità senza neanche averne pienamente coscienza. Fumare marijuana per la città o vivere in una casa occupata non è che fosse proprio legalissimo, girare con gli autobus senza biglietto non è che fosse… però la maggior parte viveva così.
L: Il bello era viaggiare ovunque senza pagare. Autostop, treno non pagato. L’autobus a Bologna fino al ’77 per gli studenti era gratuito. Poi lo misero a 50 lire e a quel punto le macchinette venivano sabotate tutte; alla fine non si pagava comunque.
G: Per molti compagni questa roba era ormai normale. Mi dispiace ed è triste che molti non lo ricordino, perché era il risultato di una forza che si aveva.
L: Come anche a scuola. In particolare negli istituti tecnici, i rapporti di forza erano tali che non è che bisognasse fare chissà che sciopero interno per imporsi. Se una cosa non quadrava, il collettivo andava a parlare con l’insegnante. Noi fumavamo in classe, i professori no. Chiaro che per mettere un attimo a posto le cose c’erano le realtà organizzate. Se il preside era faccia di merda gli saltava la macchina e poi si stava tranquilli.
V: Sìsì eh, hai voglia. Ne sono andate a fuoco tante così. Ma anche noi all’istituto d’arte, c’era una supplente che rompeva i coglioni e la macchina subito, la prima cosa. Tanica di benzina e via andare, ma alla brutta proprio. Eh oh, rompeva il cazzo.
L: Non c’era bisogno di proclami o rivendicazioni: stava nelle cose.
V: Nelle superiori c’erano modalità veramente originali. I rapporti di forza erano tali per cui alla prima ora chi ci andava? Nessuno. Alzarsi così presto? Ma tu sei fuori. Prima delle 10 non si presentava nessuno.
G: Io ho fatto un’ora di lezione di matematica in quarta.
V: La ricreazione durava un tempo indefinito. I rapporti di forza ti consentivano anche di imporre il voto. Non è che si azzardassero tanto a bocciare. Il 6 minimo garantito. Il discorso è che o mi dai il 6 politico o ti salta la macchina, o anche le rotule.
L: Quando me ne sono andata di casa, le prime 2 settimane ho dormito al collettivo dell’Aldini, che non era la mia scuola. Era quella la rete, non è che i compagni facessero un piacere a me. Era una dimensione diversa.
G: L’Aldini era il fiore all’occhiello del PCI. Una scuola costruita come una fabbrica.
V: Quello che era straordinario erano anche le forme di vita nelle scuole, soprattutto negli gli istituti tecnici, che a Bologna erano il grosso del movimento, quando erano occupate. Alle Aldini c’erano figli di operai che avrebbero dovuto seguire le orme dei padri. Oltre a farsi i cazzi propri e alle attività culturali alternative, si puntava alla gioia di vivere, di fare cazzate divertenti. Durante le occupazioni, in questa scuola, che siccome era una fabbrica aveva i montacarichi al posto degli ascensori, il divertimento era portare una 500 all’ultimo piano e andare a manetta per i corridoi. I compagni delle Aldini ci hanno stupito tantissime volte. Si andava a vedere le corse per i corridoi, dentro le aule… banchi sbaragliati, sedie per aria… Mi sono divertito un casino. il PCI era impazzito ché gli trattavamo così il fiore all’occhiello.
Il contagio, il virus è una buona rappresentazione del propagarsi dell’autonomia e della rivoluzione, perché c’era poca ideologia e molto senso del pratico, del vivere quotidiano, della materialità.
G: A 14 anni il mio primo approccio alla rivoluzione fu con l’Unione dei Comunisti Marxisti Leninisti che pubblicava “servire il popolo”. Gli articoli erano su quanto stessero bene i lavoratori in Cina. Cose veramente fuori di testa, io leggevo e dicevo: “mah, che figata”. C’era ideologia, ma su Rosso c’era un inizio di critica a questa ideologia. L’autonomia iniziava ad essere una critica.
V: La caratteristica del vivere autonomo è che era proprio proiettato sul qui e ora, sul cambiamento immediato. Noi stessi eravamo la rivoluzione nel momento in cui ci trasformavamo facendo militanza. Il cambiamento, il qui e ora, era questo: il militante autonomo era la rivoluzione in sé, ora, adesso, mentre la stava facendo. C’era anche un discorso di lunga gittata, ma noi ci si rivolgeva alla materialità, poca ideologia. Chiaro, studiavamo anche molto, però non stavamo a raccontarcela.
L: C’era meno necessità di progettualità. Poi cercavamo di viver bene, mica ceneri sulla testa o ceci sotto i piedi.

 La qualità della socialità era talmente alta che senza conoscere nessuno pigliavi e andavi su. Tiravi fuori la tua roba, offrivi, prendevi, ci si conosceva.

V: Questo è un argomento che fa anche ridere volendo, ma ha importantissimo fondamento e dignità politica. Volere il lusso.
G: L’ideologia del PCI era il sacrificio. Al meglio, della dignità operaia del lavoro. L’operaio è meglio del padrone perché lavora, pensa che assurdità.
V: Pensavamo che il massimo sviluppo delle forze produttive potesse darci la possibilità di vivere senza lavorare. Abbiamo applicato quella che era già teoria politica anche di Potere Operaio alla pratica. Significava che quando si andava a battezzare un supermercato per fare spesa gratis si andava con una composizione spuria: autonomi, Lotta Continua, cani sciolti. Un osservatore attento poteva distinguere militanti autonomi e militanti di lotta continua. Quelli di Lotta Continua portavano via le cose essenziali, noi il caviale, i formaggi francesi più raffinati, il whiskey, lo champagne. Con tutta ‘sta roba si andava in sede e festa, grandissima festa. Stessa cosa le boutique: si portava via tutto e si distribuiva. Altro che autonomi cattivi, incazzati, che facevano ‘sta vita illegale. Noi ci siam divertiti un casino. Ma di cosa stanno parlando? Il nostro slogan era “duri ma con gioia”. C’era sempre festa. Giravi per Bologna e le case degli studenti le sgamavi subito perché alle finestre c’era luce, spesso intermittente, e casino bestiale. La qualità della socialità era talmente alta che senza conoscere nessuno pigliavi e andavi su. Tiravi fuori la tua roba, offrivi, prendevi, ci si conosceva.

G: Quello che distingue il cosiddetto autonomo dal resto del mondo è la radicalità. Una certa condivisione, ampia, della consapevolezza che legalità e legittimità sono cose diverse. Il pensiero radicale, essere totalmente contro lo stato presente. Il rifiutare il modo di pensare secondo cui migliorando i rapporti con il nemico, discutendo, si possano ottenere miglioramenti. Punto di vista che trovo si sia perso, conclusa l’esperienza del movimento e dell’autonomia. La visione radicale dello scontro sociale: da una parte noi, dall’altra il nemico. Alle cose si dà un certo valore a seconda di come sono in rapporto a questo scontro. La radicalità di quello che vogliamo per la nostra vita. L’idea di non voler regalare gli anni che uno ha a disposizione all’universo del lavoro.

 Se invece decidevamo politicamente che in un momento era necessario scontrarsi per una specifica strategia, attaccavamo direttamente, a freddo. Non gli si andava sotto come si fa adesso con gli scudi… spingi-spingi. È uno sbaglio che non commettevamo, il corpo a corpo è una stronzata.

V: Per tirare una riga sull’argomento, possiamo sintetizzare in poche parole: il nostro stile di militanza era uno stile che nulla toglieva alla socialità. Non abbiamo mai interpretato con sacrificio le cose che facevamo, le abbiamo sempre interpretate come la felicità di farle. La nostra è stata una militanza bella, felice, gioiosa, gaia. C’era rifiuto totale del martirio. Ci si divertiva un casino. Non è che fosse tutto rose e fiori, non le davamo sempre… magari. Ogni tanto le prendevamo, a differenza di adesso che si prendono e non si danno mai. In piazza decidevamo noi se lo scontro si faceva o no. La polizia stava cagata perché oramai sapeva che, se avesse caricato, 7, 8, 10 di loro sarebbero rimasti a terra. Era fatto assodato. Ma non roba leggera… feriti gravi.
G: Soprattutto sapevano che se avessero caricato non sarebbe finita lì, avrebbero dovuto caricare ogni giorno finché non si stancavano.
V: Se invece decidevamo politicamente che in un momento era necessario scontrarsi per una specifica strategia, attaccavamo direttamente, a freddo. Non gli si andava sotto come si fa adesso con gli scudi… spingi-spingi. È uno sbaglio che non commettevamo, il corpo a corpo è una stronzata.
L: Era tutto organizzato, soprattutto nelle manifestazioni grosse. Si rubavano le macchine e si riempivano con le molotov fabbricate la notte precedente.
G: Io negli scontri con la polizia a cui ho partecipato non ho mai visto un poliziotto da vicino.
L: Nelle manifestazioni delle donne i rapporti di forza erano diversi. Botte le ho prese due volte: una dalla celere ad una manifestazione femminista. Colpivano le donne coi manganelli solo in pancia e in faccia. L’altra volta le ho prese dalla FGCI al corteo dei medi.
G: Che non erano poliziotti… veri.
L: Nelle manifestazioni organizzate ero protetta dal servizio d’ordine. Non ho mai visto una carneficina. Stavi tranquilla anche se eri più piccola.
V: A proposito di forme di vita, c’era pure il trasporto. Anche lì era tutto affidato all’illegalità più o meno di massa. Se avevi fretta o non c’erano autobus prendevi una macchina, ma senza rovinarla.
L’aprivi, andavi dove dovevi e poi la parcheggiavi in un posto normale, chiudendo lo sportello. Uno doveva fare la denuncia, però la trovava. Serviva per spostarsi, non per rubarla. La macchina era un mezzo collettivo.
L: C’era anche un’immediatezza diversa nel riconoscersi coi compagni fuori da Bologna. Nonostante fossi una ragazzina, per andare a Milano non pagavo il treno. Milano la conoscevo poco, però trovavi sempre un compagno che ti dicesse dove andare, dove dormire. Lo davi per scontato, come era la vita in comune.

Sul femminismo

L: In quegli anni dalle compagne fu portato avanti magnificamente il lavoro che era partito da prima del ‘77. Anzitutto nei rapporti dentro la famiglia, con padri e fratelli, ma anche con i propri compagni (che erano più teste di cazzo di come sia successivamente emerso). Facevamo una doppia fatica: quella della militante e quella della femminista. La realtà era che i compagni, in situazioni pubbliche, forse per i rapporti di forza, stavano più cagati. In privato però un po’ dell’aberrazione maschilista emergeva.
Molte compagne femministe, poi, vivevano nell’intimo situazioni ambigue.
G: Potrei dire una cosa breve? Il mio rapporto col femminismo è stato segnato dal fatto che una femminista con cui stavo diceva: “tutti gli uomini sono dei bastardi tranne Giorgio”.
Mi è sempre rimasto il dubbio (rivolto a Valerio): che cazzo facevate voi, invece?
L: C’era molta ambiguità, che poi è emersa. Dicendola in due parole: su dei “fondamentali” in generale abbiamo educato i compagni. Il baratro tra i generi, però, non è stato assolto da quella lotta. C’era la questione del “leaderismo”, maschio per antonomasia, che mi faceva incazzare parecchio.
Io certi atteggiamenti di potenza da “io sono il verbo” non li ammettevo, che fossero per scherzo o veri.
Per quanto lavoro sia stato fatto, è stata dura e siamo arrivate fino a un certo punto. Devo dire che il bello dell’antagonismo di adesso è che trovo rapporti molto più equilibrati tra generi nei compagni. Mi fa pensare che non tutto sia stato vano.
Prima non esisteva un corteo dove nel servizio d’ordine o in prima fila ci fossero donne. Ora ci sono e la presenza non è formale, ma di pratica.

Dopo

L: La cosa più eclatante del dopo è stata la solitudine. Dopo l’81, al di là della mia attività politica che continuava su altri fronti, andavo in Piazza Verdi e rimanevo ferma lì. Per me era incomprensibile che si fosse dispersa tutta questa dimensione collettiva che fino a poco prima era stata il quotidiano.
Era un modo di vivere altro che alla fine si era interiorizzato nella città, era dato. Al di là dell’antagonismo, del portare avanti un progetto politico rivoluzionario,io questa collettività di vivere (anche la propria intimità) non l’ho più trovata.

 Nell’80 dopo il diploma andai a lavorare part-time come impiegata. Avevo bisogno di quei soldi, ma il mio problema principale era che l’orario mi permettesse di andare alle manifestazioni: era superiore come esigenza.

V: Cambia la quotidianità perché, a un certo punto, il movimento perde quota. Dopo il convegno del settembre ’77, il canto del cigno, c’è il momento più basso del movimento dopo le precedenti sconfitte operaie. Questo determina uno sfaldamento nella comunità antagonista in generale, che era fatta dai gruppi e da quella ampia porzione dell’autonomia organizzata o diffusa, soprattutto dopo lo sfondamento da parte del PCI attraverso Calogero e il suo teorema. Tranne pochi focolai di resistenza, dopo la fine della rivista Rosso – perché finiamo praticamente tutti in galera noi di Rosso – continua con Magazzino e poi con altre piccole esperienze, ma sostanzialmente quell’area si dissolve. Negli anni ’80 la maggior parte dei compagni autonomi più attivi dell’area organizzata era in carcere. Lì c’è un cambiamento: non solo non c’è più uno stile di militanza, ma non c’è proprio più la militanza, perché eravamo in galera o perché eravamo latitanti. Stiamo parlando di migliaia di latitanti; gli arresti erano quotidiani ed erano decine e decine al giorno in tutta Italia. Questo ha determinato nei compagni e nelle compagne quella militanza, diciamo, più o meno collaterale, di area larga.
Tutto questo purtroppo, e lo dico con molto rispetto e tantissima tristezza, ha fatto sì che noi perdessimo tantissimi compagni e compagne morti di eroina. Fu una strage: dall’80 all’82 tanti, pensando di aver interiorizzato in sé la sconfitta, non avendo la cassetta degli attrezzi per elaborare politicamente quel particolare passaggio di bassa, finirono chi nell’eroina, chi nella delinquenza comune vivendo di reati (continuando individualmente pratiche che si facevano da molto prima, ma per motivi politici), chi andò in India e abbracciò varie religioni e spiritualismi. Poi ritorno al privato: quindi chi si sposò, chi fece figli, chi trovò un lavoro. Non passano dall’altra parte, non collaborano con il nemico, semplicemente si ritirarono per i cazzi loro.
L: Io, per esempio, dal momento che me ne andai di casa a 17 anni, nel ’77, fu la dimensione collettiva ad accogliermi. Come diceva giustamente Valerio, negli ’80 tutto questo non era più possibile e dovevi pensare anche a come sopravvivere. Era molto difficile venire a patti con tutte queste cose. Ricordo il mio primo lavoro. Nell’80 dopo il diploma andai a lavorare part-time come impiegata. Avevo bisogno di quei soldi, ma il mio problema principale era che l’orario mi permettesse di andare alle manifestazioni: era superiore come esigenza. È chiaro che quando ho parlato della solitudine è perché avevo trovato una dimensione che a un certo punto non c’era più. Non potevi calcolare di sostituirla con la vita “regolare”, perché non ti dava un cazzo. Comunque, fino a metà degli anni ’80 c’è stato tutto il lavoro di sostegno ai compagni e alle compagne che erano latitanti, però non era più come prima, era una roba da carbonari, per cui avveniva per rapporti assolutamente personali e individuali. Diventava sempre più grande la separazione tra il tuo essere e quello che c’era intorno, ancora più evidente, più grande, più sentita che prima, non so come descriverlo. Credo che anche nella migliore delle ipotesi, vale a dire chi non ha avuto grosse vicende giudiziarie, chi è stato fortunato, insomma, questa separatezza se la sia portata sempre dentro. Questa separatezza io ce l’ho ancora.
G: A Bologna l’esplosione dell’eroina fu allucinante. I bar che facevano parte della rete che ho descritto prima diventarono rapidamente luoghi di spaccio.
I compagni inizialmente reagirono sprangando gli spacciatori. La cosa non funzionò. Nel giro di pochi mesi gli stessi che sprangavano diventavano a loro volta spacciatori. Questo per la natura stessa di quest’arma dello Stato. L’eroina è un veleno che si propaga per contatto: basta immetterla.
I compagni ebbero la capacità di contenere questo fenomeno solo tramite il movimento delle occupazioni e dei centri sociali, che traghettò un certo numero di compagni, forse in modo settario, dalla fine degli anni ‘70 ai ‘90. Con una politica piuttosto rigida nei confronti delle droghe pesanti riuscì a creare una sorta di cordone sanitario e consentire che una parte del potere del movimento riuscisse a riprodursi e ad arrivare fino ad oggi. Va riconosciuto a questi compagni.
L: Allora non c’era la consapevolezza che l’eroina fosse un’arma mortale. E non c’era l’AIDS, emersa dall’83, per cui sembrava semplicemente un peccato veniale. È per questo che ebbe una diffusione incredibile.
G: C’era pure un’ideologia della droga – fricchettona – nel movimento.
L: In molti compagni ci salvammo grazie alla filosofia militante per la quale non potevamo rischiare di accostarci all’eroina, pena diventare anelli troppo deboli e ricattabili.
Io sono, peraltro, una persona cui piace sperimentare le cose, però se io non mi sono accostata all’eroina è stato proprio per la politica. Per me l’autonomia è stata assolutamente un tampone.
V: Io ero un militante di struttura, avevo uno stile di vita adeguato alla mia militanza. Significa che certa droga con me non c’entrava. Era qualcosa da combattere, era il capitale, un suo strumento.
L: Beh, le canne sì. E qualche acido, la cui assunzione veniva vissuta comunque come momento conviviale.
V: Non c’era proibizionismo. L’eroina però era interpretata come droga di Stato. E combattuta in quanto tale. Senza mediazione.

Ricordi del ’77

G: Ricordo la sera dell’11 marzo ’77. Quando arrivai in piazza Verdi la vidi completamente ricoperta da cocci di bottiglie. L’atmosfera mi ricordava i film sulla rivoluzione messicana. Era molto cinematografico.
Nel pomeriggio il corteo si diresse invece verso la sede del PCI in via Barberia: era l’obiettivo. La polizia caricò. Non avevo mai visto a Bologna una carica così. Lacrimogeni ad altezza uomo: rimasero i segni sul granito del palazzo di fronte.
L: Nel ’77 era uso girare coi limoni: come ora, servivano contro i lacrimogeni. A partire dall’11 marzo a Bologna c’era uno scenario da guerra civile: carri armati a parte, gli elicotteri giravano tutto il giorno.
Come sempre quando ci incontravamo per un concentramento, prendevamo l’autobus. In quei giorni, però, gli sbirri presero a fermare gli autobus, come in Sudamerica. Se trovavano i limoni, ti fermavano: la consideravano arma impropria!
G: Queste cose la questura di Bologna le sapevano dal PCI, che gli passava fotografie e schede sui militanti. Gli avranno riferito come usavamo i limoni.
L: In Piazza Maggiore, sempre piena di gente, l’«ala creativa» del movimento faceva rappresentazioni. In quei giorni riprodussero un autobus col cartone, perché era ridicolo che li fermassero!
V: Ricordo la manifestazione del 12 a Roma. Io ero nel gruppo dell’autonomia bolognese che rappresentava la nostra parte al corteo. Molti rimasero in città. Prendemmo il treno verso le 9. Francesco Lorusso fu ucciso intorno alle 10. In centinaia, quindi, eravamo già in treno e non sapemmo niente fino all’arrivo a Roma. Mentre il treno si fermava, i compagni di Roma ci mostravano i giornali. Ricordo, mentre scendevo, il Paese Sera che diceva: “ucciso uno studente a Bologna”. Una volta scesi dal treno, telefonammo ai compagni di Bologna. Decidemmo insieme di restare a Roma: quella manifestazione dovevamo tenerla. I compagni delle varie organizzazioni ci misero in testa al corteo in onore di Francesco. Ci incamminammo per le vie di Roma e arrivammo a Piazza del Gesù, dove c’era la sede nazionale della DC. Mentre noi ci affacciavamo come cordone di testa alla piazza, i compagni dei Volsci attaccarono a colpi di molotov la sede della DC. Non ho mai visto un incendio così. Non so quante ne lanciarono, ma dovevano essere veramente tante, perché tutta la piazza si colorò di rosso… roba da Spielberg! Rimanemmo impressionati. Un tiro di molotov di quella portata non l’ho mai visto né prima e neanche dopo.

Allucinazione metropolitana

Il sole che penetra tra le imposte gli trafigge gli occhi costringendolo a svegliarsi tredici minuti prima che l’allarme della sveglia tentasse di trapanargli il cervello. Andrea si siede sul letto: anche oggi è vivo. Conta i suoi passi silenziosi – non può svegliare Diana e Azzurra, stanno ancora dormendo – mentre si dirige in cucina: undici. Apre l’armadietto sopra al fornello e forse per un attimo è davvero felice perché inaspettatamente ci sono ancora i biscotti nonostante fosse convinto di averli finiti. Dieci minuti di doccia e poi di corsa verso il lavoro ché sono le 6:45 ed è già tardi.
Da lontano scorge la serranda del bar già alzata e spera non sia stato il proprietario a farlo perché significherebbe che inquinerà i suoi sensi già di primo mattino. Appena mette piede nel bar, Andrea nota nell’ordine: la faccia afflitta di Nadia, l’orrendo Ivano Namemi e l’assenza di espressione sul volto di Diego. Merda.
Ivano Namemi è il proprietario di una catena cittadina con 7 punti vendita la cui mancanza di personalità è supplita da una gran quantità di retorica sull’uomo fattosi da sé. Sì, perché Ivano è figlio di un pover’uomo e di una povera donna e questa è con tutta probabilità una delle cose peggiori che potessero capitare a Andrea.
L’imprenditore proprio in virtù, dice lui, della consapevolezza delle sue radici sostiene di tenere a rimanere coi piedi per terra e perciò ogni mattina si reca in uno dei suoi sette locali per spendere la giornata lavorandovi. Namemi forse è davvero convinto di lavorare, forse gli piace narrare la sua persona così, ma fatto sta che, cascasse il mondo, Andrea è convinto di non averlo mai visto adoperarsi, eccezion fatta per qualche caffè, quelli glieli deve riconoscere.
Ivano passa le giornate a ronzare attorno ai suoi dipendenti, costretti a lavorare con questa orticante presenza che tenta, possiamo dire quasi senza interruzione, di spiegare loro come applicarsi meglio in un lavoro che lui non ha mai fatto, a provare a urtare “per sbaglio” il culo di Nadia o delle altre bariste e a provare a seminar zizzania tra i suoi stipendiati quando ad esempio non ha voglia di pagare loro la tredicesima.
Andrea trattiene il sospiro per evitare che Namemi lo interpreti come un appiglio per fargli un discorso motivazionale, sposta l’interruttore del suo cervello su “off” e inizia a lavorare.
Il giorno seguente Andrea spegne la sveglia delle 6, si obbliga ad alzarsi e in quindici minuti è in strada, diretto verso casa di suo nonno, vecchio carabiniere in pensione, vedovo, di cui ha le chiavi perché sia mai che stia male mentre è solo e per soccorrerlo bisogna sfondare la porta. Apre la porta, sguscia in casa, apre il cassetto del mobile marroncino a fianco alla porta, prende la pistola di suo nonno e torna sul marciapiede.
Alle 7:10 Andrea è nel locale di Via Glicine e spara a Ivano.

Lavorare stanca! [video completo]

Approfittiamo del magnifico momento in cui molte/i di noi si trovano (il ritorno a lavoro dopo qualche giorno di vacanza, grande fatalità depressivo-distruttiva) per proporre il video completo proiettato durante la serata contro il lavoro salariato e la sua retorica “Lavorare Stanca!

Noi individuiamo nella disciplina del lavoro salariato uno dei bastioni dell’ideologia liberale che ci incatena: non è vita quella che si spende aspettando la fine del turno, il fine settimana, le vacanze, la pensione.
Il posto di lavoro è anche il luogo dove noi, che non abbiamo altro da vendere che non il nostro tempo e la nostra forza lavoro, subiamo più pesantemente la pervasività del capitalismo ed i suoi capisaldi: lo sfruttamento, l’alienazione, i rapporti di potere che ci annichiliscono come esseri umani.

Battersi contro il capitalismo vuol dire anche battersi contro il lavoro. Già in tante e tanti gli resistiamo, lo rifiutiamo più o meno ideologicamente: bisogna continuare a lottare e farlo insieme per essere più forti e per realizzare un mondo in cui la quotidianità non sia scandita dal suono di una sveglia.

Lavorare stanca!

Serata contro il lavoro salariato e la sua retorica

Sabato 16 dicembre dalle 19 al Circolo Berneri, Bologna

– Cena benefit vegana di autofinanziamento per compagne/i inguaiate/i dallo Stato!
– Musica, proiezioni e dibattito aperto a tutti/e (escluso chi: “io anche se non ne avessi bisogno lavorerei comunque, sai che noia sennò!” ed altri crumiri)

Partecipa all’evento: https://www.facebook.com/events/1989547207932356/

 

Slealtà e Reazione

Dal Ku Klux Klun alle ONLUS

Ultimo aggiornamento: 24 novembre 2017

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Ultimi aggiornamenti

24 novembre 2017

  • Sistemata la paginazione del documento in PDF

19 novembre 2017

  • Aggiornato il documento in PDF

5 novembre 2017

2 novembre 2017

Non sono d’accordo con te ma morirei perché tu possa esprimere la tua opinione.

Questo adagio tanto comune fra l’opinione pubblica (ed erroneamente addebitato a Voltaire) ha fatto sì che negli anni fiorissero senza alcuna difesa gruppi che possono permettersi ogni sorta di atrocità.

Lealtà e Azione, che sale saltuariamente alle cronache per lo sdegno ipocrita di amministratori comunali e feccia simile, è una di queste: bianca fuori, ma più nera di una foiba (ambiente naturale dei suoi militanti) dentro.

HAMMERSKINS

La nascita della tragedia

Alla fine degli anni 80 il Ku Klux Klan, organizzazione terroristica americana dedita a propagandare il suprematismo razziale e a compiere aggressioni e omicidi contro le persone di colore, decide di rinnovarsi: negli anni del dopo-punk dei WASP incappucciati non hanno più presa sui giovani, e vengono ormai scavalcati a destra da una generazione di yuppies e brokers che senza il loro folklore attua la segregazione razziale in salsa capitalista.

Prendendo spunto dai camerati europei decidono di infiltrarsi nel movimento skinhead- movimento che vale la pena precisare nasce negli anni 60 fra i giovani inglesi amanti della musica nera ska e bluebeat- creando una nuova organizzazione che promuova concerti di white power rock.

È il 1988 quando si formano ufficialmente gli Hammerkins, organizzazione di promozione culturale neonazista composta da boneheads particolarmente violenti.

Ben presto gli hammers, riconoscibili per i due martelli incrociati di pinkfloydiana memoria tattuati sul corpo o cuciti sul bomber, si espandono anche in Europa diventando l’elite dei boneheads, degli skinheads nazisti: i più violenti e i più radicali nelle loro idee.

Nel 1992 a Milano due ragazzi, uscendo dal centro sociale Leoncavallo, vengono aggrediti da un hammer armato di martello: Norberto Scordo, futuro leader degli hammerskin milanesi oltreché futuro cantante di un noto gruppo di “rock identitario”, i Malnatt (da non confondersi con la band black metal di brave persone di Bologna).

Nascita di Lealtà e Azione

Giovani di brutte speranze

Negli anni 2000 la presenza degli hammerskin in lombardia si infoltisce e, a Milano, è una sequela di aggressioni sempre più violente. Qui una cronologia non esaustiva.

  • 2 Febbraio 2001: I tre giovani hammerskin Stefano Del Miglio, Giacomo Pedrazzoli e Vito Schirone offendono una studentessa di colore della scuola Monteverdi Colorni, apostrofandola come «sporca negra»
  • 16 maggio 2001: Del Miglio, Schirone e Pedrazzoli, inseguono, brandendo coltelli e bastoni, due frequentatori del centro sociale Il Cantiere.
  • 11 aprile 2004: 4 compagni e una compagna vengono aggrediti da una dozzina di bonehead davanti ad un locale sui Navigli, il Mayflower Pub, a due passi dal centro sociale Orso e dal Cox18. I fascisti avanzano ma i/le compagn*, anche se in evidente inferiorità numerica, li affrontano. Quando i fascisti si avvicinano estraggono, tutti, i coltelli. A quel punto i compagni tentano la fuga ma uno viene preso, picchiato e accoltellato nell’interno coscia, ad un centimetro dall’arteria femorale.
  • 7 agosto 2004: un folto gruppo di teste rasate, 20-25 almeno, con magliette nere inneggianti al White Power, armato di coltelli, taglierini, spranghe di ferro e cinture borchiate, si materializza all’improvviso tra via Ascanio Sforza e via Conchetta, a poche decine di metri dal centro sociale Cox18, ferendo gravemente un ragazzo di 31 anni e altri cinque all’addome, alle braccia e alla schiena. I nazisti identificati saranno i soliti Del Miglio, Schirone e Pedrazzoli (condannati a 4 anni e 8 mesi per lesioni e tentato omicidio) e altri ragazzi e ragazze del circuito hammerskins. Il 27 settembre 2007 la Corte d’Appello riduce per tutti le pene derubricando il reato di tentato omicidio.
  • 15 agosto 2004: vengono tratti in arresto Vito Schirone, Andrea Mura e Del Miglio verso le 5.30 del mattino dagli agenti di una volante, mentre tentano di forzare il portone di ingresso del centro sociale Vittoria, in via Muratori, con un piede di porco, un grosso tronchese e una torcia.
  • 19 luglio 2008: Un gruppo di punx anarchici/anarchiche, stanchi/e delle continue provocazioni squadriste effettuate dai nazisti in zona ticinese, reagiscono contro un paio di hammer, che si danno subito alla fuga.
    Pochi minuti dopo i nazi tornano con un folto gruppo di camerati e parte uno scontro fatto di cinghiate e lanci di bottiglie.
    Un giovane anarchico verrà ricoverato in ospedale per ferite con armi da taglio, 9 persone fra punx e boneheads verranno arrestate.
    Fra i nazi arrestati c’è il sempiterno Norberto Scordo.

Intanto, in questi anni, i nazi hanno creato delle vere e proprie basi dove propagandare la loro merda e divertirsi fra concerti RAC e serate hawaiane (sic!).

Il luogo di riferimento più importante in Lombardia è la Skinhouse, in via Alfieri a Bollate (MI), fondata nel 2008 dalla sedicente “associazione sociale” Milano 38 (Lealtà e Azione come sigla non era era ancora formata) cui fa capo Stefano Del Miglio, e diventa ben presto un ritrovo per tutti i Boneheads del Nord Italia.

Intanto a Milano nel 2007 Alessandro Todisco, ex leader degli Hammer italiani e protagonista insieme a Scordo dell’aggressione del 92 ai militanti del Leoncavallo, tenta di porre le basi per il suo sogno: Cuore Nero, un luogo dove tutte le sigle dell’estrema destra si incontrino e si confrontino.

La prima sede, in viale Certosa a Milano, viene bruciata nel 2007, ancor prima dell’apertura ufficiale e la seconda, in via Pareto, non gode di grande fortuna a causa dell’avvicinamento di Todisco a CasaPound che gli aliena molte amicizie.

Il primo decennio del 2000 si chiude con la galassia dell’estrema destra estremamente frazionata e non è un caso che parlando degli Hammer ci siamo riferiti solo alla zona del milanese, perché tutta l’Italia fascista è divisa fra gruppuscoli che mantengono l’egemonia su varie zone (Veneto Fronte Skinhead in Veneto, Casapound in Lazio, la gente vicino alla band Legittima Offesa a Bologna, Forza Nuova un po’ dappertutto).

Dopo il 2010 qualcosa cambia: prendendo spunto dall’esperienza di CasaPound che, pur non lesinando aggressioni e violenze, si pone come associazione sociale e culturale, tanti camerati decidono di fare lo stesso.

Gli hammerskin creano quindi l’associazione Lealtà e Azione, che viene così presentata nel sito ufficiale:

“Lealtà Azione è una libera associazione di promozione culturale e sociale che vuole costituire una comunità etica, al tempo stesso politica, spirituale ed intellettuale, unendo uomini e donne in una comunione di intenti, d’ideali e d’azione, che agiscono volontariamente nella società con spirito Militante, ovvero con fede, senso del sacrificio, disciplina e senza ricercare utili materiali o profitti personali, perché animati da una concezione etica della vita che si riassume nel rispetto dei Valori tradizionali, nel senso dell’onore e nel rifiuto del compromesso sistematico”.

L’obiettivo di base è palese: propagandare la loro dottrina e cercare nuovi affiliati tramite vari progetti culturali.

Una prima sede viene inaugurata in viale Brianza 20, Milano, nel 2010, e l’anno successivo nasce la sede di Monza, in via Dante 5.

Urge però aprire una parentesi per capire come un gruppo, peraltro non molto nutrito, riesca ad avere i fondi necessari per aprire due posti (mantenendo la Skinhouse) quasi in centro di due importanti città.

Hammer e mafia

Money changes everything

La prima sede, denominata “Avamposto” apre nel 2010 a Milano in viale Brianza in uno stabile di proprietà Aler, assegnata con un contratto d’affitto di favore, senza bando pubblico, a Norberto Scordo.

L’inaugurazione si tiene il 4 novembre con un omaggio al criminale nazista Leon Degrelle.

A favorire Lealtà azione ci pensa Marco Osnato, genero di Romano La Russa, candidato a Milano per il Pdl nel 2011, ovviamente sostenuto da Lealtà azione, direttore gestionale dell’Aler. Per la cronaca Marco Osnato verrà poi condannato per turbativa d’asta negli appalti Aler.

Si trasferiscono poi in due sedi distaccate: uno è l’Avamposto in via General Govone, l’altro è il vecchio “Cuore Nero” in via Pareto.

Quest’ultimo stabile è di proprietà della Milasl srl del calabrese Michelangelo Tibaldi che la controlla attraverso la Brick. Un risiko societario riassunto in una nota della Banca d’Italia del 2013 per alcune operazioni sospette. Il documento è messo agli atti dell’indagine calabrese sull’ex tesoriere della Lega nord Francesco Belsito. Il nome di Tibaldi, pur non iscritto nel registro degli indagati, compare in un’indagine della Procura di Reggio Calabria. Si tratta del primo tempo sulle infiltrazioni mafiose nella municipalizzata Multiservizi. Tra i soci privati compare la stessa Brick di Tibaldi. L’organigramma è riassunto nel report della commissione d’accesso che porterà allo scioglimento del comune di Reggio. Secondo i commissari “Tibaldi favoriva il mafioso Santo Crucitti attraverso l’intermediazione di Dominique Suraci“. L’affermazione si fonda sugli atti dell’inchiesta Sistema che nel 2007 fotografa l’ingresso della ‘ndrangheta nella Multiservizi. Obiettivo dei boss: ottenere una convenzione tra la municipalizzata e la Finreggio, società riconducibile allo stesso Crucitti. Il piano si compie grazie alla mediazione dell’ex consigliere comunale Suraci che “sfrutta l’appoggio di Michelangelo Tibaldi socio privato della società mista”. A suo tempo peraltro la società era guidata da Lino Guaglianone che nel 2007 ha ceduto le quote a Tibaldi, anche se ne è rimasto amministratore unico fino al marzo 2010. A Guaglianone, ex tesoriere del gruppo fascista eversivo NAR, succede Giorgio Laurendi, funzionario dell’Agenzia delle entrate licenziato per corruzione e alla guida del circolo di Alleanza Nazionale “Protagonismo sociale”.

Insomma malgrado non ci siano le prove provato di una vera e propria complicità fra Hammer e mafia, bisogna dire che questi “rivoluzionari” fra faccendieri e speculatori più o meno legati alle cosche si circondano proprio di belle persone!

Tanto per gradire, qualche altra aggressione

  • 3 dicembre 2012: due Hammer accoltellano al torace un compagno legato alla SHARP di Milano. Lealtà e azione se ne dissocia e dice che quei due ragazzi “non avevano niente a che fare con l’associazione”. Viene appurato però che sono assidui frequentatori della Skinhouse e dell’avamposto in viale Brianza che viene attaccato durante il corteo di solidarietà al compagno ferito.
  • 22 febbraio 2016: una squadraccia entra nella Statale di Milano per punire i compagni e le compagne ree di aver contestato un gruppo di camerati del gruppo Alpha, emanazione di L&A nelle università.
    Non trovando gli/le antifascist*, se la prendono con un ragazzo con i dreadlock.

Le ramificazioni di L&A

Fanno i nazisti con voci diverse

Lealtà e azione decide di muoversi su più livelli, da una parte mantendo la loro immagine di picchiatori fascisti, dall’altra, con la connivenza di locali e istituzioni, di darsi una serie di immagini più “rispettabili” e soprattutto inclusive, tramite associazioni e ONLUS direttamente collegate a loro.

Qui di seguito la lista completa:

BRAN.CO ONLUS :”Associazione solidarista di promozione sociale senza fini di lucro, che opera per l’aiuto e il sostegno, morale o materiale di quanti ne condividono gli ideali, i valori, i principi etici e lo stile di vita.”

Questa ONLUS, famosa per le raccolte di fondi nei mercati rionali, distribuisce cibo e viveri di prima necessità per persone in difficoltà rigorosamente “italiane” (progetto “CooXazione“).

Sotto questo specchietto per le allodole si muove però una neanche troppo sottile propaganda anti-abortista e omofoba, con la promozione di convegni atti a contrastare la fantomatica “ideologia gender”;

 

MEMENTO: stando alle parole del sito di L&A, sarebbe una “Associazione di volontariato impegnata nella tutela, promozione, valorizzazione e salvaguardia del patrimonio monumentale, storico e ideale rappresentato dai Sacrari, dai cimiteri militari, dai monumenti e dai musei che raccolgono i corpi, i cimeli, i ricordi e i simboli di quanti si combatterono per l’Onore dell’Italia”.

Curano quindi le tombe del Campo Dieci al Cimitero Maggiore di Milano (dove il 25 aprile di quest’anno si sono radunati in 350 facendo il saluto romano) e del Campo 62 del cimitero di Monza, che disseminano di gagliardetti tricolori, perché “Memento non dimentica il sacrificio degli Eroi”.

Gli “eroi” sono i gerarchi fascisti e i repubblichini di Salò;

 

GRUPPO ALPHA: il fronte universitario di L&A.

Promuovono convegni che vanno da Dante Alighieri al nazional-bolscevico Alexandr Dugin (strizzando così l’occhio ai più trendy fratelli rossobruni) fino all’onnipresente Julius Evola, così da pescare in quella zona grigia dove universitari apolitici si avvicinano alle tematiche della Tradizione;

 

LUPI DELLE VETTE: le immancabili passeggiate in montagna, l'”in su la vetta!” di evoliana memoria per allontanarsi dalla metropoli consumistica e fortificare la volontà.

Ci piacerebbe sapere, al di là di queste escursioni, quale critica sia mai stata prodotta da dei fascisti- al di là del “ritorno al bosco” (comodo, una volta al mese, la domenica possibilmente..) -al modello di sviluppo industriale capitalista e alla conseguente iper-urbanizzazione dei territori;

 

I LUPI DANNO LA ZAMPA: una delle associazioni più ingannevoli di tutte.

Dicono che il loro impegno principale sia “di ripartire dagli antichi vincoli tradizionali di conoscenza e rispetto della natura, per poter combattere quella ‘nevrosi di massa’ che induce l’uomo moderno, prigioniero del delirio materialista e progressista, a devastare l’ambiente e ad auto-distruggersi.”

Nei fatti promuovono delle iniziative a prima vista carine come corsi nelle scuole per l’infanzia per far approcciare correttamente bambini e bambine con i cani, oppure raccogliere materiale quale antiparassitari, cibo e coperte per cani e gatti in canili e comunità.

Non può sfuggire però all’osservatore attento il secondo piano ideologico, quello del “blut und boden“, sangue e suolo, per cui la difesa della natura si accompagna alla volontà di preservare la razza ariana.

A dispetto di questo, come sopra, ci chiediamo come si possa coniugare la difesa del territorio e di tutti gli esseri viventi (che siano di etnia caucasica, cisgender e anticomunisti, ca va sans dire) senza portare una reale critica ai modelli di produzione presenti;

UNA VOCE NEL SILENZIO: si occupa dei cristiani perseguitati nel mondo, raccogliendo beni di prima necessità solo e unicamente per loro.

Ad esempio fu molto famoso il banchetto che istituirono a Camposanto, in provincia di Modena, davanti alla Chiesa e con il benestare del parroco.

Queste attività di beneficienza, che non possono essere condannate in quanto tali, sono in realtà in linea con lo spirito segregazionista di L&A: aiutare solo gli esponenti di una e una sola fede perpetra quella terribile menzogna che in medio-oriente e in Africa i continui eccidi siano causati solo su base religiosa, creando quella distanza fra “noi” e “loro”, quando all’interno coesistono contraddizioni ben più complesse in cui entrano a gamba tesa gli interessi che il capitale ha su quei territori.

Ma il capitale, si sa, i fascisti non lo vogliono contrastare realmente;

WOLF OF THE RING: associazione che si occupa di combattimento, tramite allenamenti  prevalentemente di Thai Boxe, corsi di autodifesa e incontri.

Sacrificio, rispetto e dedizione sono le parole d’ordine del gruppo ed è abbastanza normale in contesti del genere un’attitudine simile, se non fosse che oltre a qualche sprovveduto pronto a farsi fare il lavaggio del cervello l’associazione sia frequentata da gente che ha sulle spalle molteplici aggressioni e tentati omicidi.

Interessante notare come i loro eventi siano patrocinati da ACSI, LEONE e altri brand istituzionalizzati o perlomeno famosi così da dare una legittimità ulteriore e de-politicizzare tutto il discorso;

Infine citiamo brevemente UN CALCIO ALLA PEDOFILIA/LA CARAMELLA BUONA, che promuove incontri di calcetto i cui fondi vanno ai minori vittime di violenza sessuale e ADES, che dedica tavoli alle vittime delle foibe e agli esuli istriani.

Possiamo notare come Lealtà e Azione agisca su due livelli: uno assolutamente prepolitico, con associazioni che possono destare un interesse in chiunque, a prescindere dal credo politico, e portarlo a guardare con simpatia alle loro attività; un altro invece porta avanti un discorso di propaganda esplicitamente nazista, solo che celata.

Da un certo punto di vista sono riusciti a emulare i vecchi nazional-socialisti, che sono arrivati al potere costruendo in dieci anni una cultura di stampo identitario e non (sempre) esplicitamente razzista, molto meglio dei loro camerati: perchè sembrare degli stupidi Boneheads come il Veneto Fronte Skinheads o dei politicanti come Casapound o Forza Nuova quando ci si può radicare sul territorio spacciandosi per volenterosi attivisti?

La cosa buffa è che loro fanno la stessa cosa che imputano alle ONG, nascondere dei fini prettamente politici sotto una coltre di solidarismo ma, come sappiamo, la coerenza non è mai stata materia per fascisti.

Lealtà e azione entra in politica

Essi vivono

Alle elezioni amministrative di Milano del giugno 2016 il candidato della Lega Nord di zona 8 è un giovane simpaticone di 24 anni.
Camerati, tutti pronti per il grande passo, conquistare il Reichstag!

Si chiama Stefano Pavesi, ed è un militante di Lealtà e Azione.

Le polemiche non tardano ad arrivare e addirittura il candidato sindaco del centro-destra, Parisi, si dissocia ipocritamente dalla scelta della Lega, partito che lo sostiene.

A riprova di quanto la politica istituzionale non riesca ad annusare le volontà storiche del popolo (e, se lo facesse, avrebbe sentito un chiaro tanfo di fascismo), Parisi perde, ma Pavesi stravince diventando il consigliere di zona 8.

In un anno il ragazzo diventa memorabile grazie ad alcune sue esternazioni, tipo quella sulla strage delle Fosse Ardeatine come “naturale conseguenza del vile attentato partigiano” (azione del 22 marzo 1944 dei GAP contro un commando di tedeschi NdA) che si commenta da sola, e al partecipare con indomito coraggio alle proteste contro la decisione del comune di stipare alcun* migranti nella caserma Montello.

Milano ha sempre avuto fascisti nella sua amministrazione, basta ricordare De Corato, ma ora ha un nazista che a quanto pare reputa più importante la vita di 33 militari nazisti che quella di 335 italiani, fra cui anche civili.

Un anno dopo si tengono le elezioni amministrative a Monza, dove vince il candidato del Centro-Destra Dario Allevi.

Già fan della pagina Facebook di L&A, il neo-sindaco nomina come assessore dello sport il “lealista” dichiarato Andrea Arbizzoni.

Soprannominato “il senatore” della curva ultrà del Monza, un tempo capogruppo di An in consiglio e già assessore allo Sport nella giunta del sindaco leghista Marco Marian, come il suo camerata Pavesi si affretta a dichiarare “Non sono nazista, sono un patriota” (sic).

Intanto Stefano Del Miglio esulta: “Possiamo l’impossibile, quando LA scende in campo lascia il segno“.

Intanto a fine giugno 2017 nel Milanese il gruppo di fasci celebra la “Festa del sole“, con sport, comizi e musica.

A presentare la richiesta per il raduno estivo -mascherata da addio al celibato- ai vari Comuni (che gran parte gliela rifiuteranno) c’è Simone Simonetti, già arrestato insieme a Norberto Scordo e Davide Cancelli per lo scontro con i punx al Ticinese.

Il cerchio si chiude, come dicevano i Sex Pistols “Nessuno è innocente“: in una Lombardia sempre più xenofoba i neonazisti non sono più uno sparuto gruppo di tagliagole Boneheads, ma una vera propria realtà sociale e istituzionale.

Un pericolo incredibile per chiunque si batta contro razzismo, sessismo e omofobia.

 

Lealtà e Azione oltre la Lombardia

La metastasi si espande

  • FIRENZE: Tutto comincia nel 2008, con la fondazione dell’associazione “La Fenice”, vicina a Forza Nuova. Dopo la fallita apertura di una libreria e quella di una sede elettorale in via della Scala, da cui nel 2009 partiranno due aggressioni ai danni di alcuni ragazzi antifascisti, la relazione fra i camerati fiorentini e quelli milanesi si farà sempre più stretta, tanto che il già citato Giacomo Pedrazzoli festeggierà l’uscita dal carcere proprio a “La Fenice”.
    Questa alleanza partorirà un susseguirsi di iniziative parallele a quelle lombarde, con qualche variazione sul tema (“In Kart contro la pedofilia” anzichè “Un calcio alla pedofilia“), molte delle quali patrocinate dal Comune di Firenze.
    Per ulteriori dettagli invitiamo a consultare l’ottimo dossier su Lealtà Azione a Firenze redatto da Firenze Antifascista.

 

“Lealtà e Azione è attivo nel bolognese con un ristretto numero di militanti su cui si appoggia per lavorare nella Bassa, per fare “volontariato” in zona Murri con le solite “raccolte di alimenti per famiglie italiane» promossa dall’associazione CooXazione, e ha una forte attrattiva fra i tifosi della Fortitudo agendo nel gruppo degli Unici. Un membro dei Legittima offesa è infatti attivo nella tifoseria della Fortitudo e ha messo su un programma radio (con streaming) a Radio Punto assieme a gente di Lealtà e Azione.”

Effettivamente Bologna si sta riempiendo sempre di più di croci celtiche sui muri, e si è scoperto spesso (ma sempre troppo tardi) dei banchetti di raccolta fondi per l’acquisto di generi alimentari di Cooxazione.

Per consultare i movimenti di L&A e altri gruppi di estrema destra in Emilia Romagna consigliamo il dossier di Emilia Antifascista.

 

  • GENOVA: Un pugno di anni fa Giacomo Traverso, fuoriuscito da Forza Nuova e frequentatore della curva nord dell’inter, fonda l’associazione “La Superba”, i cui militanti autodefinitisi sovranisti non lesinano sull’immaginario boneheads fratto di 88 e croci celtiche, alternandolo a presunte iniziative culturali e solidali.
    Ben presto “La Superba” si federa a “Lealtà e Azione”, partecipando alla già citata “Festa del Sole” e sostenendo a Genova le ONLUS-feticcio “Bran.Co” e “Memento”.
    È notizia recente che a ottobre 2017 verrà inaugurata una sede, di proprietà della Fondazione Assarotti dei Padri Scolopi (preti e fascisti, un amore che non muore mai) in via Serra 1H.
    Per informazioni più esaustive consigliamo il dossier redatto da Genova Antifascista.

 

  • PALERMO: nel 2014 nasce a Palermo l’associazione culturale identitaria “Azione Talos”.
    Sotto questo nome, abbastanza appropriato stavolta (Talos nella mitologia greca era un automa costruito per proteggere l’isola di Creta dai nemici. Un burattino costruito da una società severamente divisa per classi, quindi), si cela l’ennesimo gruppo di matrice neofascista.
    Oltre all’appendere striscioni contro lo Ius Soli e promuovere iniziative insieme a “Noi con Salvini” contro la zona a traffico limitato, segnaliamo che sono associati al progetto cooXazione di “Bran.co onlus” con la raccolta alimentare per italiani in difficoltà
    Azione Talos nella sua sede ha anche un negozio di libri e CD “non conformi”  iperbole per dire “neofascisti” – chiamato “AVAMPOSTO CASTRVM”

Lealtà Azione e Casapound

Today your love tomorrow the world

Il 29 aprile 2017, alla consueta commemorazione per i caduti della RSI al Cimitero Maggiore di Milano, si presentano almeno un migliaio di militanti, molti di più rispetto agli anni passati.

Non è Lealtà Azione che ha ingrossato le sue file, ma è l’inizio ufficiale di un asse fra l’organizzazione neonazista e i “fascisti del terzo millennio” di Casapound.

Questa relazione convolerà simbolicamente a nozze qualche mese dopo, con l’annuncio della pubblicazione in formato cartaceo della testata sovranista “Il Primato Nazionale”, da anni voce ufficiale di Casapound.

Riportiamo qui le considerazioni in merito a questo dell’“Osservatorio democratico sulle nuove destre”:

All’appuntamento delle elezioni politiche Casa Pound e Lealtà azione si stanno preparando investendo risorse e attivando la propria galassia di gruppi e associazioni collaterali, uno dei tratti caratterizzanti in assoluto le modalità aggregative del neofascismo di questi anni. (…) E mentre Casa Pound apre attività commerciali nel circuito della ristorazione (le Osterie da Angelino, tra Milano, Roma e non solo, addirittura anche all’estero), e si è impegnata nel campo della moda (sponsorizzando il marchio Pivert), Lealtà azione, attraverso alcune sue figure, è a sua volta presente nella ristorazione (in particolare in Brianza), ha aperto negozi (di abbigliamento a Milano), e ha recentemente acquisito un Bar dalle parti di Niguarda. Soldi e investimenti con l’intento di affermarsi sul piano nazionale. A questo scopo Lealtà azione ha dato vita a una sorta di “federazione”, gemellandosi con diverse altre realtà presenti sul territorio italiano, ricordiamo tra le altre, quelle torinesi (Legio subalpina), genovesi (La Superba), vicentine (Rudis), friulane (Comunità militante Helm), romane (Foro 753), pugliesi (Progetto Enclave) e calabresi (Identità tradizionale).

 

“TEAR THE FASCIST DOWN”

Diviene necessario prendere atto del grado di maturazione raggiunto da gruppi dello scenario neofascista prima sempre parsi poco presentabili. Se fino a 10 anni fa il cuore di Lealtà e Azione pulsava in una cloaca sottoculturale di bonehead picchiatori da stadio, adesso l’intelligenza tattica di questo gruppo gli ha sicuramente permesso di fare un salto di qualità nella proposta di intervento sul territorio.
Non ci si può più permettere di commettere l’errore di accademici e intellettuali di sinistra di considerare i fascisti come degli stolti che fanno presa giusto su altri stolti.
Lealtà e Azione (ma non solo) negli ultimi anni ha saputo adattare e diversificare la propria azione politica, riuscendo a penetrare e a trovare agibilità in ambiti della “società civile” in cui non era prima mai riuscita a far presa, ambiti talvolta in precedenza direttamente di competenza della “sinistra”.
Sottovalutare un nemico che ha dimostrato intelligenza pragmatica e strategica non solo è grave, ma può dimostrarsi fatale rispetto alla nostra possibilità di agire fisicamente nelle strade e nei quartieri.

 

Indirizzario non esaustivo delle sedi di L.A. e dei loro collaborazionisti

  • Avamposto: via Giuseppe Govone 35, Milano
  • Sede L.A.: via Vilfredo Pareto 16, Milano
  • Valinor: via Dante 3, Monza
  • VALLVM: via Milite Ignoto 8, Lodi
  • Astrea: via Damiano Chiesa 19, Abbiategrasso
  • Il Rifugio: via Mario Pagano 12, Firenze
  • La Superba: via Serra 1H, Genova
  • Terra dei Padri: via Nicolò Biondo 297, Modena
  • AZIONE TALOS/AVAMPOSTO CASTRVM: via Vincenzo Li Muli 110, Palermo.

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